Scrivere le cose come stanno. Scriverle chiare. E scriverle sul quotidiano Il Foglio, nelle pagine del consueto inserto Mobilità del mercoledì. Precisioni necessarie, firmate da Fulvia Bacchi, direttore generale UNIC – Concerie Italiane, utili per perimetrare un fronte di antagonismo agli interni pelle che, quasi sempre, si basa su presupposti del tutto sconclusionati e che risultano essere solo marketing.
La svolta vegana dell’auto è solo marketing
“È un problema di disinformazione volontaria e strumentale. Un’arma di distrazione di massa fomentata a tavolino per strategie di marketing – scrive Bacchi -. È la continua, fin troppo assordante, pulsione di molte case automobilistiche di annunciare repentine conversioni alla moda vegana e ai suoi diktat, ritenuti – senza particolari controprove – più sostenibili”. Prima fra tutte: “Abbandonare la pelle per rivestire sedili, volanti e altre parti interne di un’auto. È una pulsione che ha colto l’occasione della transizione elettrica per salire di tono, finendo spesso per andare a sbattere contro un muro perché pone le sue basi su un assunto illogico”.
Un assunto illogico
Eccolo (è sempre il solito): “Non usiamo le pelli, perché vogliamo salvare gli animali da cui derivano. L’affermazione si nega da sé – continua Bacchi -, perché, soltanto in Italia, oltre il 99% dei pellami che ogni anno passano attraverso i processi di trasformazione delle concerie sono scarti di un’altra industria, ivi compresi quelli utilizzati per industria degli interni: l’industria della macellazione, cioè quella alimentare della carne. Fatte salve e soddisfatte a monte tutte le istanze sostenibile relative al benessere animale, dunque, la conceria – e quella italiana ne rappresenta un caso d’eccellenza – raccoglie un rifiuto ed evita la conseguenza dell’oneroso e incalcolabile impatto ambientale legato alla sua dismissione”.
Una complicata (da far capire) ovvietà
Qualcosa che, “per l’industria conciaria è un’ovvietà, per chi vuole propagandare le qualità alternative di altri materiali è un’occasione per creare ad arte un fraintendimento del quale poi finisce per pentirsi e per usare spesso e volentieri terminologie fuorvianti. Come nel caso del neologismo “ecopelle” applicato alla definizione di materiali di derivazione plastiche che non sono pelle, tanto meno eco e il cui utilizzo è categoricamente vietato dal Decreto Legislativo 68 del 2020”.
Un cortocircuito da manuale
L’intervento del direttore generale si conclude citando quello che si definisce come “un cortocircuito da manuale”. È quello di Polestar, marchio elettrico di casa Volvo che vanta di avere un approccio “vegan first” e in passato promosse il suo Model 2 come un esempio di rispetto degli animali, visto che non ne utilizzava per scelta “etica” la pelle”. In pratica, nel giro di pochissime stagioni in Svezia hanno cambiato idea. Per esempio, si sono resi conto che “affidarsi solo a materiali sintetici pone delle sfide in termini di sostenibilità”. Ma anche che la pelle “è la soluzione per molte questioni legate alla qualità e all’ambiente”.
Un dietrofront da manuale
C’è di più. In un’intervista a Motor Trend Maria Uggla, senior design manager di Polestar, ha ammesso che “trovare un sostituto di alto livello è complicato. (La pelle) è un sottoprodotto e continuerà ad essere un sottoprodotto (della zootecnia)”. Ecco, allora, che nel catalogo Polestar “la svolta vegana dell’auto è solo marketing”. Dopo il cortocircuito, anche il dietrofront è da manuale.
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