Bari, quella di Celeste Capurso è una storia nel nome della scarpa

Bari, quella di Celeste Capurso è una storia nel nome della scarpa

Una storia “nel nome della scarpa” racchiusa in poco più di 9 metri quadri nel centro di Bari. Un minuscolo laboratorio-museo ricco di aneddoti e storie che neanche il Covid può cancellare. La storia è quella di Celeste Capurso, che ad un passo dai cinquant’anni decide di cambiare vita e di dedicarsi anima e corpo a riparare calzature. Non solo: Capurso (nella foto) soprattutto le crea su misura per selezionati clienti che definisce “intenditori” del bespoke.

Nel nome della scarpa

Io sono nato in via San Francesco della Scarpa – sottolinea Celeste – nel cuore del centro storico di Bari. È da lì che mia madre, da quando avevo 6 anni e fino all’età di 10, mi ha ‘mandato a bottega’. Io pulivo le scarpe e raddrizzavo i chiodi: Mest Pepp’ fu profetico, e mi disse che questo mestiere lo avrei ripreso tra le mani”. Cosa che è successa nel 2015: dopo aver fatto il contadino, aver lavorato nel settore dell’abbigliamento e nella sua merceria, Celeste fa il giro d’Italia e del mondo per imparare i segreti della calzatura.

Imparare a 47 anni

Celeste a 47 anni ha ripreso a fare l’apprendista tra gli ultimi calzolai artigiani rimasti a Bari. Poi è andato a Nardò, in Salento, per imparare a realizzare la suolatura della scarpa. Non contento è andato a Firenze e poi è volato negli States (in Georgia, a Savannah) per lunghi mesi di formazione. “Mani, testa e cuore: senza non riuscirei a creare – spiega Celeste, mostrando le forme avute in dono in questi anni insieme alle sue nuove creazioni in progress –. Ma è a Cisternino, nel silenzio della Valle d’Itria, che porto a termine le calzature. Per quelle su misura mi serve un mese e mezzo di lavoro. Oggi con il Covid è tutto un po’ fermo ma io non demordo, vado avanti”.

Le pelli toscane

Per realizzare i suoi modelli Celeste Capurso cerca le pelli e il cuoio in Toscana: “Serve la prima qualità, le scarpe devono parlare. Io faccio prima una scarpa di prova per il mio cliente e poi dopo le sue osservazioni porto a termine la calzatura finale”. Pantofole, modello Derby, mocassini sono le richieste che arrivano a Celeste nel suo mini laboratorio. Ma dentro trovano posto una scarnatrice per tomaie Simac e tanti oggetti antichi, regali di amici e clienti. Qualche esempio? Uno scarpone reduce dell’alluvione di Firenze del 1966, degli stivaletti da donna di fine ‘800 e un paio di Chanel rosse con la fibbia rotta, perse nel girovagare in città da una bottega all’altra e ritrovate dopo sei mesi. “Loro sono il mio porta fortuna – ricorda Celeste –. Tra i momenti più emozionanti degli ultimi due anni da calzolaio c’è di certo il dono fatto a San Nicola, patrono della mia città: con la mia compagna ho realizzato delle pantofole in seta, completamente ricamate, che ora vestono i piedi della statua venerata dai pellegrini di tutto il mondo”. (aa)

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