Prima l’Inghilterra, poi il Canada e ora il Giappone. La protesta contro il dress-code per le donne in ufficio raggiunge l’estremo Oriente, dove l’attrice Yumi Ishikawa sta guidando un collettivo che al grido di #KuToo – gioco di parole che mescola “kutsu”, scarpe, e “kutsuu”, dolore, e il motto “MeToo” – chiede al governo di varare una legge che vieti alle aziende di imporre alle dipendenti di utilizzare scarpe con il tacco negli uffici. Ishikava ha lanciato la protesta con un post online qualche mese fa, raccogliendo oltre 23.000 firme con una petizione online e presentando infine la mozione al governo. “No” ha risposto seccamente loro il ministro del Lavoro Takumi Nemoto, spiegando che “l’utilizzo di calzature con i tacchi alti sul luogo di lavoro può essere una prassi necessaria e appropriata”. La battaglia contro i tacchi in ufficio si sta combattendo anche in Occidente e già da tre anni, da quando cioè la giovane dipendente di un call-center di Londra, Nicola Thorp, venne licenziata perché si era presentata in ufficio senza tacchi. Fino a quel momento, infatti, la legge britannica consentiva ai datori di lavoro di richiedere che le lavoratrici rispettassero un preciso dress code e contro questa norma Thorp lanciò una raccolta firme poi presentata al Parlamento. Anche in questo caso al termine della discussione parlamentare la petizione è stata respinta e la legge non è stata modificata. Pochi mesi più tardi la stessa protesta attraversò l’Atlantico e arrivò in Canada. Qui l’iniziativa legislativa dei rappresentanti del Green Party della provincia del British Columbia ha portato il governo locale a modificare le norme sancendo che tali pratiche mettono in pericolo la salute e la sicurezza delle lavoratrici. (art)
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