Il Vietnam è una soluzione o una trappola per le imprese statunitensi? Anche prima della guerra commerciale tra Cina e USA, le produzioni già fuggivano dalla Repubblica Popolare a causa dell’aumento dei salari, molte proprio con destinazione Hanoi. Gli effetti sono ben visibili. Nei primi cinque mesi del 2019, la scarpa vietnamita ha realizzato un fatturato di oltre 7,1 miliardi di dollari (+14,3%), riportano i dati dell’associazione nazionale del prodotto in pelle (Lefaso) ripresi dal magazine cinese Xinhua. Scorrendo le tabelle, si apprende che nello stesso periodo il fatturato estero della pelletteria è di 1,5 miliardi di dollari (+9,2%). Secondo le previsioni, nel 2019 grazie alle commesse estere i ricavi di calzature e borse aumenteranno dell’11%.
Insidie
Per le aziende che hanno trasferito la produzione in Vietnam non è tutto rose e fiori. Devono affrontare più di un’insidia. Quali? L’arretratezza delle strutture logistiche (che provocano ritardi nelle spedizioni), la mancanza di competenze degli addetti, fino all’aumento dei salari in corso.
Che fretta c’era?
Per i produttori statunitensi, dunque, si tratta di un riflesso negativo della guerra commerciale tra USA e Cina: è questa, infatti, ad aver accelerato il processo di trasferimento delle supply chain verso il Vietnam (oltreché altri Paesi del Sud Est asiatico). Un cospicuo numero di imprese ha scritto a Trump che lo spostamento della produzione comporterebbe un aggravio di costi superiore al dazio. “Quel 25% ci sta colpendo in testa – ha detto a Reuters Rick Helfenbein, presidente della American Apparel and Footwear Association –. Se potessimo spostare più prodotti dalla Cina, lo faremmo, ma non siamo in grado di farlo”.
Backshoring impossibile
Se l’obiettivo ultimo dell’amministrazione Trump è riportare negli States il calzaturiero, se lo può dimenticare. “Gli Stati Uniti non sono un’opzione – ha commentato con CNN Matt Priest, presidente e CEO di FDRA (l’associazione statunitense dei retailer e distributori di calzature) –. C’è una lunghissima lista di destinazioni che le aziende calzaturiere prenderanno in considerazione prima di tornare negli Stati Uniti. Penso che questa idea che tutto debba essere fatto qui negli USA ignori i fatti economici della supply chain globale del ventunesimo secolo”. (mv)
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