Una questione di tensione tra offerta, domanda, prezzo e appeal. Fino a quando la tensione c’è stata, Nike (con il brand Air Jordan) è stata leader indiscussa della sneaker. Da quando è venuta a mancare, ha perso terreno, soprattutto a favore di Adidas, anche sul mercato statunitense. Una spiegazione a un fenomeno fino a qualche anno fa impensabile, la perdita di quote del colosso di Beaverton, l’ha fornita Josh Luber, ceo del portale e-commerce StockX, nel corso di un intervento ripreso da Business Insider. “Nel 2015 Adidas rappresentava 1% del mercato, mentre Nike il 96%. Adesso Adidas rappresenta il 60% del nostro fatturato”. Che cosa è successo nel 2015? Che il brand tedesco, con il buon successo del modello Yeezy, ha infilato il primo granello, iniziandone il sabotaggio, nel meccanismo perfetto di Nike. Il brand sin dal 1987 ha giocato su una produzione di calzature ben inferiore alla domanda, con il duplice scopo di rendere le scarpe cool e spingere il pubblico più affamato a comprarle anche da rivenditori che applicavano prezzi più alti di quelli di listino. “Se la domanda relativa a un modello di scarpe è pari a 100 unità e Nike ne produce 96, beh, ne venderà 96 – sono le parole di Luber –. Vendita facile di tutte le scorte nei negozi retail. Ci saranno dei mercati secondari, ci saranno dei ricarichi, ma le venderà tutte. Ma se la domanda relativa a quel modello di scarpe è pari a 100 e l’azienda ne fornisce 101 – conclude –, appena un po’ di più, potrebbe venderne 70 o 60 o 50 o comunque molte meno di 96”. Già, perché oltretutto con la maggiore disponibilità evapora anche il fascino dell’esclusività. Nike paga una certa lentezza di riflessi: progetta e produce a ritmi biennali, considera Luber, quindi è stata travolta da una mutazione di scenario che non ha saputo prevedere. Ma ci sta lavorando. Staremo a vedere
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