Come minimo, dovremmo definirlo un paradosso. Volendo, ci possiamo vedere un segno dei tempi. Il brand statunitense Reformation fa della responsabilità ambientale e sociale la propria ragion d’essere. Il suo claim, per fare un esempio, recita: “La scelta sostenibile n. 1 è rimanere nudi, noi siamo la n. 2”. Lo scorso autunno, per farne un altro, ha presentato una collezione denim per taglie forti dal sapore politico: è un segnale a quella moda portatrice di una idea malsana di magrezza. Ecco, Reformation ha da poco esteso la propria offerta alla calzatura, lanciando 11 modelli accomunati dal design un po’ anni ’90. Alla stampa hanno spiegato che i loro processi di produzione non sprecano acqua e riducono del 52% le emissioni di anidride carbonica, mentre hanno scelto di usare pelle al vegetale perché “sostenibile” e “anallergica”. Ecco, proprio l’uso della pelle ha suscitato qualche perplessità nella stampa di moda. E non perché lo staff di Reformation afferma con fin troppa perentorietà la propria predilezione per la concia metal-free. Ma proprio perché il marchio responsabile ha scelto di impiegare la pelle. Il ceo Yael Aflalo, parlando con Fashionista, deve spiegare la propria posizione di fronte al pubblico che anela una moda cruelty free: “La questione è complessa e non esiste una risposta che abbia ragione al 100% – si giustifica –. Dal nostro punto di vista la pelle è un sottoprodotto dell’industria della carne”. Se al Fashionista (che riconosce: senza concia la pelle finirebbe in discarica) la risposta piace, per Harper’s Bazaar non è abbastanza: commentando i risultati di sostenibilità vantati da Reformation, chiosa: “La questione della pelle rimane irrisolta”. Tempi moderni, non particolarmente rassicuranti.
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