In Bangladesh la moda è alla resa dei conti. Le imprese della filiera hanno raggiunto un punto di non ritorno dovuto in parte allo stop dei partner dall’Europa e in parte a una transizione green ed efficiente del distretto conciario mai riuscita. Per fronteggiare il primo problema, le aziende minacciano di inserire in una “black list” i clienti insolventi. Nel secondo caso i nodi sembrano talmente ingarbugliati che è ormai difficile individuare una soluzione.
La moda alla resa dei conti
I vertici della BGMEA, l’associazione che riunisce i produttori ed esportatori di abbigliamento, minacciano di inserire in una black list la britannica Edinburgh Woolen Mill (EWM) se non pagherà i suoi fornitori per la merce inviata prima del 25 marzo. Secondo l’associazione, la società avrebbe cancellato ordini per una cifra compresa tra i 2 e i 3 milioni di dollari. Della società britannica fanno parte i brand come Peacock, Jaeger e Austin Reed, cui si relazionano alcuni sub-fornitori locali. Questi ultimi potrebbero essere inseriti allo stesso modo in una lista nera come anche altri clienti. Il passo successivo potrebbe essere la citazione in giudizio. I vertici di BGMEA, inoltre, comunicano che quando la questione sarà risolta, i loro associati non stringeranno comunque nuovi accordi con EWM e le sue affiliate. Che la crisi del fast fashion europeo metta in crisi la produzione del Far East è cosa nota, tanto che all’esplosione del Covid-19 il Bangladesh aveva stimato una perdita di ordini per circa 2,75 miliardi di euro. La minaccia di black list rappresenta il primo moto rivoluzionario dei produttori locali.
Savar affonda nei liquami
Il futuro della concia bengalese stava invece nell’innovativo distretto di Savar. La speranza delle autorità e degli stessi operatori era che la concia potesse aumentare la propria capacità produttiva adeguandosi agli standard internazionali, sia in termini di produzione che di rispetto ambientale. Un sogno infranto, come racconta da The Asia Foundation, organizzazione di sviluppo internazionale senza scopo di lucro che opera in Oriente. Era il 2001 quando i 220 conciatori di Hazaribagh vennero invitati a trasferirsi nel nuovo distretto: ad oggi solo 123 sono operativi nella nuova sede. Cuore pulsante di Savar avrebbe dovuto essere l’impianto di depurazione CETP, che però ancora non funziona a pieno regime. Stando alla fondazione, si assiste invece allo sversamento di parte di liquami in un cortile all’aperto, mentre l’acqua non trattata finisce direttamente nel fiume Dhaleshwari. Tutto ciò sarebbe imputabile, secondo The Asia Foundation, a una “costruzione affrettata, disorganizzata e incompleta“. A tutto ciò si sommerebbero condizioni di lavoro non idonee per gli operai delle concerie, privi di sistemi di protezione individuale e in molti casi di contratti regolari. Contro questi aspetti la fondazione ha avviato un progetto di promozione del lavoro dignitoso per introdurre gli operai e le autorità di vigilanza ai concetti di base di salute e sicurezza, gestione dei rifiuti e diritti del lavoro nel quadro giuridico del Paese. (art)
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