La lista è lunga e variegata, perché negli ultimi anni UNIC – Concerie Italiane si è molto spesa in difesa della pelle. Ci sono le case di moda, di tutti i segmenti e le specializzazioni, da Armani a OVS, passando per Calzedonia. Poi, ci sono i canali e-commerce, come YNAP e Amazon UE, e le testate giornalistiche online e tradizionali, come Il Post e Il Giornale. C’è la Juve. Ci sono i marchi del design (Foppapedretti) e dell’auto (FCA, Mercedes e Mazda, per fare qualche esempio). Ci sono, ça va sans dire, i produttori di materiali alternativi più smaliziati. Le azioni legali di UNIC si rivolgono contro i “termini scorretti” in ambito informativo e gli “attacchi denigratori” all’industria conciaria. L’ufficio legale, dicevamo, è da anni molto attivo. Ma, da quando è entrato in vigore il Decreto Pelle, che finalmente disciplina in maniera univoca e inequivocabile cosa si può definire pelle, e cosa no, ancora di più.
In difesa della pelle
UNIC ha presentato il report delle proprie attività legali durante l’ultima assemblea generale. Le diffide sollecitano una vasta platea di interlocutori a correggere i testi inopportuni. Le richieste di rettifica, invece, chiedono la compensazioni alle “asserzioni mendaci contro l’industria conciaria”. Hanno colto nel segno. In questo modo si sono ottenute “la rimozione delle espressioni non corrette”, rivendica UNIC, la loro sostituzione con l’indicazione “dell’esatta composizione del prodotto (ad esempio 100% PVC)” e “la pubblicazione di rettifiche”. I casi recenti, come quello di Chiara Ferragni, e passati, come la querelle con Wineleather, dimostrano l’efficacia dell’azione.
Una questione di correttezza
Biopelle, similpelle, ecopelle e, ancora, le varianti anglofone, come vegan leather. Sono diciture molto diffuse e, tutte, profondamente sbagliate, perché “poco chiare e fuorvianti”. UNIC (associazione che fa parte di Confindustria Moda) ricorda che, innanzitutto, “non si può qualificare pelle ciò che non deriva dalla spoglie animali” conservandone la struttura fibrosa. E che, poi, è quantomeno scorretto che i produttori di materiali alternativi, che siano sintetici o bio-based, si approprino dell’aura “di un materiale più prestigioso” solo con un giochetto lessicale. La questione ha due riflessi. C’è la concorrenza sleale (e, a volte, diffamatoria) alle concerie. Ma si pone anche il danno al consumatore, che è “portato a credere trattarsi di pelle ciò che non è pelle” e che “è spinto a supporre che un articolo per essere ecologico non debba arrivare da spoglie di animali”.
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