Una congiuntura molto “differenziata in base al settore”. Il che “è abbastanza logico”, vista la quotidiana criticità che ci circonda e che, nel 2020, ha portato il fatturato del settore a cedere il 26% del suo valore. La necessità di continuare a migliorare la propria eccellenza sostenibile. Trovando formule di comunicazione che arrivino a stimolare la conoscenza e la consapevolezza di chi, alla fine fa “girare” il mercato: il consumatore. E molto altro. A tre mesi dalla sua nomina, avvenuta il 3 dicembre 2020, in questa intervista facciamo il punto sulle sfide della pelle italiana con il presidente di UNIC – Concerie Italiane Fabrizio Nuti (gruppo Nuti Ivo).
Il presente della pelle italiana
Cosa si può dire di questo inizio di 2021?
Novembre e dicembre 2020 ci avevano mostrato una certa ripartenza. Ma a gennaio e febbraio si è subito visto un nuovo rallentamento. Diciamo che ci si muove tra alti e bassi, affrontando una situazione molto differenziata in base al settore di destinazione delle pelli.
Chi va peggio?
I comparti più legati ai flussi turistici e all’interagire sociale delle persone. Quindi calzatura, pelletteria e più, in generale, la moda che credo, dopo turismo e ristorazione, sia il settore più colpito dalle conseguenze della pandemia. La pelletteria va leggermente meglio, grazie al forte richiamo delle griffe.
L’online non aiuta?
Certo, ma ha un limite. Oltre un certo livello di posizionamento di un articolo non può andare. Certi accessori di lusso, per essere scelti e acquistati, richiedono di vivere un’esperienza, un’emozione. Cose che in un clic non ci sono.
Arredamento e automotive?
L’imbottito va meglio perché dopo un anno in casa l’esigenza è stata ed è quella di dare una dimensione nuova ai propri spazi. L’automotive, invece, ha avuto un trend di ripresa abbastanza forte anche perché negli USA hanno varato una serie di incentivi e il mercato ha fatto una curva al rialzo. Ovvio, però, che l’auto non è un bene che si cambia ogni 6 mesi e, quindi, non è facile prevedere cosa accadrà nei prossimi. Anche in funzione dei sempre più diffusi progetti di sviluppo di auto elettriche.
Auto che spesso non montano interni in pelle…
Già. E non si capisce perché i produttori associno l’idea dell’elettrico all’uso di materiali sintetici al posto della pelle.
Le sfide della pelle italiana
Una contraddizione che non è tipica solo dell’automotive: come vincerla?
È la grande sfida che ci poniamo. Il nostro ruolo di conciatore serve al pianeta. Recuperiamo uno scarto dell’industria alimentare che, tra l’altro, nei prossimi decenni sarà sempre maggiore visto il costante aumento della popolazione mondiale che, piaccia o meno a qualcuno, consumerà più carne. Diamo nuova vita e valore a questo scarto attraverso tecniche che non implicano alterazioni naturali. I concianti che usiamo, infatti, oggi vanno, per la quasi totalità, verso l’utilizzo di sostanze biologiche e rinnovabili. Cromo compreso, che subisce ancora una demonizzazione che si fatica a comprendere.
Eppure il “marketing green” insiste a colpevolizzare la pelle…
Noi non facciamo marketing, ma sostenibilità vera, tangibile. La facciamo da almeno 60 anni. Chi vorrebbe che si rinunciasse alle pelli pone le condizioni per generare due danni. Primo: le pelli, come rifiuto, andrebbero dismesse, ma come visto anche il loro volume? Secondo: tutti i prodotti che ora sono fatti in pelle, con cosa li fai? Con le foglie di cactus o i funghi? Le grandi quantità di accessori finiranno per essere realizzati in materiali sintetici, il cui smaltimento è tutto fuorché biodegradabile.
E qui si ritorna alla sfida di cui si parlava prima: cosa fare?
Dobbiamo promuovere la nostra eccellenza, che non è fatta di parole, presso il consumatore. Dobbiamo fargli capire che la pelle, soprattutto la pelle italiana, è il miglior materiale che può scegliere per i suoi acquisti perché contribuisce a una certa pulizia del pianeta. Noi conciatori italiani abbiamo tutta questa sostanza, ma dobbiamo trovare il modo di tradurre in pochissime parole 60 pagine di Rapporto di Sostenibilità. Dobbiamo fare interiorizzare la pelle ai consumatori, in modo che non si pongano nemmeno più certe domande. Deve bastare la parola. È un’operazione delicata, ma va fatta. Finora, con merito, siamo stati molto attenti alle nostre aziende. Siamo arrivati a livelli di qualità altissimi. Abbiamo rafforzato la nostra quota sulla produzione mondiale quando altri Paesi l’hanno ridotta. E l’abbiamo fatto rimanendo a produrre in Italia. Ma non abbiamo speso abbastanza tempo per raccontare tutta questa nostra eccellenza. Ora è il momento di farlo.
Un messaggio forte
Cosa chiede la pelle italiana al nuovo governo Draghi?
Al di là di qualsiasi necessario sostegno, basterebbe un messaggio forte.
Quale?
Proprio Draghi ha detto che in questo momento il governo deve dare forza e sostegno alle aziende virtuose, eccellenti, sostenibili e che le elargizioni a pioggia non servono a nulla. Ecco, la conceria italiana è fatta di aziende di questo tipo. Aziende che sono un esempio di savoir faire artigianale, che sono innovative, attraggono investimenti dall’estero e non fanno offshoring. Il solo dichiarare che le concerie sono un esempio da questo punto di vista rappresenterebbe per il settore un endorsement molto significativo.
Leggi anche: