L’approvazione del Decreto Pelle, l’abbiamo detto tante volte, è una pietra miliare nella (annosa) lotta agli usi impropri della parola pelle. Ma non si può pretendere che la storia cambi dall’oggi al domani. Gli svarioni nel pezzo firmato da AGI, l’agenzia di stampa edita da ENI, spiegano che la battaglia è ancora lunga. Innanzitutto perché mostrano il solito impiego di diciture definitivamente classificate come scorrette. E poi perché giustappongono l’industria conciaria alla filiera dei materiali alternativi, sintetici e bio-based, con una fretta di giudizio che non è sostenuta dalle conoscenze e dai fatti.
Gli svarioni nel pezzo
Il pezzo di AGI si propone come approfondimento sui filoni di sviluppo di materiali alternativi alla pelle. “La domanda sta crescendo – si legge –, con il mercato della pelle vegana che raggiungerà 89,6 miliardi di dollari entro il 2025, secondo Infinium Global Research”. Ecco, in questo passaggio si coglie già il primo problema argomentativo. Nel focus di AGI abbondano diciture come pelle vegana, cuoio di funghi e cuoio vegetale. Sono tutte sbagliate. Come prescrivono norme nazionali, da ultimo il Decreto Pelle, e internazionali, gli unici materiali che si possono definire cuoio e pelle sono quelli derivati dalla lavorazione delle spoglie animali. Chiamare pelle un tessuto serve solo a suggerire all’opinione pubblica che questo ne condivide qualità, caratteristiche e pregi. Aggiungere prefissi green, infine, completa il raggiro: lasciano intendere che i materiali alternativi sono più sostenibili di quelli animali. Non è così semplice.
La confusione tra ambizioni e risultati
Quando si parla di alternative alla pelle spesso si confondono gli obiettivi con i risultati effettivi. Se il fashion system si interessa ai materiali alternativi, scrive AGI, dipende dalle “polemiche sollevate dal forte impatto sull’ambiente della catena di fornitura e produzione della pelle animale”. I materiali che arrivano sul mercato, continua l’agenzia, si propongono in generale come capaci di imitare “resistenza e aspetto” della pelle. Mentre i nuovi progetti bio-based offrono “prestazioni che sembrerebbero migliori dei materiali alternativi di origine plastica, che sono derivati dal petrolio”. Che in questa frase la redattrice di AGI usi il verbo al condizionale è rivelatore. Quello fin qui descritto è l’impianto delle ambizioni dei materiali alternativi. Che questi siano anche le caratteristiche, in termini di industrializzazione dei processi di produzione per le quantità richieste dal mercato globale e di performance del prodotto, è tutto da vedere.
La verità al penultimo paragrafo
Il focus di AGI arriva al punto solo al penultimo paragrafo, titolato Ancora Nessuna Certezza. “Non esiste un’alternativa perfetta al cuoio e tutte le alternative, al momento, presentano ancora incertezze o lacune – vi si legge –. I biomateriali che dovrebbero essere biodegradabili, sebbene siano stati abbracciati dai marchi di moda sostenibili, come alternative eco-compatibili a materiali meno sostenibili, non sono stati studiati e testati ancora abbastanza”. Ecco, la questione è ancora aperta.
I risultati della concia
In questo senso ai nostri occhi pare brutto minimizzare, intanto, i risultati misurabili della concia. AGI scrive: “Sebbene in Europa le industrie abbiano dovuto innovare i processi di concia, rendendoli meno inquinanti per adeguarsi alle normative UE degli anni ’80, questi trattamenti rimangono molto impattanti”. Eppure UNIC – Concerie Italiane rendiconta ogni anno lo sforzo verso la sostenibilità del settore. Ancora AGI riporta: “L’industria della pelle sostiene la propria funzione di trasformazione e circolarità per l’utilizzo di un prodotto di scarto dell’industria alimentare”. Ma che la concia svolga un ruolo di upcycling del sottoprodotto di un’altra filiera non è un’opinione. La cronaca dell’ultimo anno, quando in tutto il mondo a bottali fermi i macelli non sapevano più che fare delle pelli grezze, dimostra che è così.
Leggi anche: