Le filiere della pelle di Pakistan e Bangladesh i piani di sviluppo ce li avrebbero pure. Il punto è che fronteggiano anche problemi che ne limitano la praticabilità. Per i primi l’handicap è sempre lo stesso (ed è ormai strutturale): il malriuscito distretto di Savar. Per i secondi, invece, è legato alle contingenze: l’inflazione fa schizzare verso l’alto i costi di produzione.
I piani di sviluppo del Bangladesh
In Bangladesh sono ottimisti. Perché sono convinti che la filiera della pelle e del prodotto in pelle abbia il potenziale per arrivare ai 10 miliardi di fatturato estero in 5 anni, per poi toccare i 12 miliardi entro il 2030. Certo, i numeri correnti dicono che il target è alto. Nel periodo luglio marzo dell’anno fiscale 22/23 il fatturato estero è di oltre 900 milioni di dollari (+2,56% su base annua). In questo modo il Bangladesh dà seguito alla ripresa post-Covid, che ha visto l’export riportarsi dai 797 milioni dell’annus horribilis 19/20 agli 1,2 miliardi del 21/22. Insomma, la soglia dei 10 miliardi è lontana. Soprattutto perché, come riconoscono gli operatori del settore con la stampa locale, il distretto di Savar è un limite ai sogni di grandezza. L’impianto di depurazione è un flop: è inadeguato alle necessità industriali e non consente alle aziende di ottenere le certificazioni necessarie a lavorare con i ricchi mercati occidentali.
Inflazione pakistana
In Pakistan un problema nuovo esacerba quelli vecchi. Perché da una parte c’è l’inflazione, che fa scoppiare i costi di produzione. Dall’altro c’è un’industria (della pelle, ma non solo) che non ha mai lavorato al proprio efficientamento e ora si trova sguarnita di fronte all’emergenza. Quali sono le conseguenze? Prodotti troppo cari per il mercato di riferimento e margini che vanno in fumo. Dall’associazione della concia chiedono al governo “agevolazioni in termini di costi aziendali, in particolare per quanto riguarda i prezzi dei servizi”.
Leggi anche: