Non offrono la stessa resistenza alla rottura e allo strappo, né la medesima permeabilità al vapore acqueo, tanto meno uguale capacità di assorbimento del vapore acqueo. Checché ne dicano i produttori, le alternative eco non sono meglio della pelle. E, a conti fatti, non sono neanche tanto eco: perché spesso e volentieri i materiali sono composti, in tutto o in parte, di derivati plastici. A mettere in chiaro le gerarchie, prestazionali e di sostenibilità, tra la pelle e le sue imitazioni è Trend Alternatives for Leather. A condurre lo studio è l’istituto tedesco indipendente di ricerca FILK (Forschungsinstitut für Leder und Kunststoffbahnen), che lo ha condiviso sulla piattaforma scientifica open source MDPI (Multidisciplinary Digital Publishing Institute).
Le alternative eco
Cotance, la confederazione europea delle associazioni conciarie nazionali, ha messo a disposizione dei ricercatori di FILK una serie di materiali. “attualmente comunicati sui media come alternativi, sotto vari aspetti, alla pelle”. Obiettivo: “Verificarne le proprietà tecniche”. In altre parole, “l’analisi è stata condotta realizzando test fisici e chimici standardizzati su 9 alternative di recente ingresso sul mercato, su di un materiale plastico e, come riferimento, anche sulla vera pelle“. Le conclusioni, dicevamo, sono inequivocabili: nessuno dei 9 materiali alternativi può dirsi neanche pari alla pelle dal punto di vista della prestazione e, quindi, della durabilità. “In particolare, l’assorbimento del vapore acqueo e la relativa permeabilità hanno ottenuto punteggi significativamente inferiori alla pelle”. La quale, “è risultata superiore anche nei test di durata (resistenza alla flessione e allo strappo)”. Checché ne dicano gli uffici marketing dei loro promotori.
La (presunta) sostenibilità
La questione non termina qui. Lo studio firmato FILK evidenzia una ulteriore criticità. Questi materiali “spingono sulla leva del marketing ecologico – ricorda Cotance –, pur non essendo assolutamente green”. In che consiste il marketing ecologico? I produttori delle alternative “non solo imitano la pelle nell’aspetto e nel tatto, ma utilizzano la parola in modo fuorviante e del tutto non trasparente per il consumatore”. Per fortuna in Italia è arrivato a mettere ordine sull’argomento il Decreto Pelle. Ma ciò non toglie che nella pubblicistica ricorrano ancora espressioni come “ecopelle o pelle di cactus”: “Materiali che non hanno nulla a che fare con la pelle e che dovrebbero comunicarsi in base alle loro caratteristiche”. Scelgono invece di porsi “in modo antagonista rispetto alla pelle” sulla base di una maggiore sostenibilità. Del tutto presunta. L’indagine tedesca ha concluso che il campione di materiali si possa suddividere in tre gruppi. Il primo prevede una base prevalentemente naturale “che non richiede l’aggiunta di componenti plastici”. Ma il secondo e il terzo prevedono la presenza “prevalente di componenti plastici” o, addirittura, l’uso “esclusivo di derivati plastici: per esempio, PVC o PUR”.
Il caso Desserto
Tra i casi di terminologia fuorviante si cita “la pelle di cactus”. E non è un caso, perché nell’indagine FILK è finito anche il messicano Desserto. Si tratta di “un esempio molto significativo – riporta Cotance – perché il materiale è estremamente trending”. Ebbene? “Alla luce dell’analisi, si è scoperto che contiene al 65% poliuretano”. Desserto “risulta essere una miscela di materie prime naturali (fibre di cactus, appunto) e plastica – conclude il comunicato –: tessuto portante in poliestere ricoperto con due strati di poliuretano”. E queste sarebbero le alternative “eco”?
Leggi anche:
- Ehi, Wired, ma dove ne hai visti di buoi allevati per la pelle?
- Frequent Asked Questions: 8 domande e risposte sul Decreto Pelle
- Cinque conciatori spiegano che la vera ecopelle “è la nostra”