“Lo vede quello?”, dice indicando una grossa pietra squadrata sulla quale è stesa una pelle dal pelo bianco. “Apparteneva alla mia famiglia. Serviva a ridurre lo spessore del materiale: lo si poggiava sopra per grattarlo con una pietra”. Donato Cascione ha fondato con la moglie il Museo Laboratorio della Civiltà Contadina di Matera. L’istituto occupa i 500 metri quadri ricavati collegando tra loro sei abitazioni nel cuore dei Sassi, dove prima vivevano braccianti, contadini e bottegai: locali ombrosi e intonacati di bianco “di un palazzotto a corte del XVI secolo”, come recita la brochure. Negli anni, Cascione ha raccolto oltre 10.000 oggetti d’uso quotidiano nella vecchia Matera, chiedendoli ai concittadini in cambio della promessa di conservare la memoria della città che fu. L’ultimo arrivato è un anello nuziale nascosto per 80 anni nella biancheria di un antico corredo. “Risale agli anni ’30. La donna cui apparteneva aveva dichiarato di averlo perso. Voleva sottrarlo alla chiamata dell’Oro alla Patria”.
Conciapelli
Cascione, classe ’49, ha organizzato le sezioni del museo, stanze affastellate di oggetti tra corridoi stretti e alte volte, suddividendole per professioni. Una di queste è quella dei conciapelli. “Con quei coltelli – enuncia – si lavorava il grasso della pelle grezza. Quella è la bilancia con cui si pesavano i materiali alla vendita. In quel recipiente – aggiunge, facendo cenno a una piccola struttura in legno – li si teneva a bagno”.
Un foglio alla parete ricorda quale fosse il metodo conciario praticato nei Sassi. Le pelli grezze erano cosparse dalla parte del carniccio di sale e cenere, piegate ed accatastate per sette o otto giorni in contenitori di argilla: qui si attendeva che i grassi si sciogliessero. Dopodiché, le pelli erano lavate in botti o vasche in pietra, poi strofinate per evitare che si irrigidissero. Il trattamento con sale e cenere o con tannino di quercia o castagno permetteva, dopo nuovo bagno, la rimozione del vello. Infine, le pelli erano stese su telai affinché non si ritirassero e, poi, sottoposte a molitura con pietra perché si ammorbidissero. Se ne ottenevano materiali buoni per l’abbigliamento, i finimenti, gli strumenti musicali: tutto per il consumo locale. “Quali erano i nomi dialettali degli attrezzi conservati qui? – si chiede Cascione –. Non lo so, non se lo ricorda più nessuno. La concia a Matera è scomparsa insieme alla Legge De Gasperi. Finita la civiltà contadina, se ne è persa subito la memoria”.
La carrozzeria abbandonata
Via Casalnuovo parte dai pressi del belvedere Pascoli e corre allontanandosi dal centro per circa un chilometro, da un lato palazzine e dall’altro il canyon in fondo al quale scorre il torrente Gravina. Proprio al termine della strada, dove confluisce in via Lucana, si trova un dosso roccioso: un vialetto di accesso e una porta di ferro segnalano che anche il suo ventre è scavato. Sull’arco si leggono le ultime sillabe di una insegna in vernice: fino agli anni ’70 c’era una carrozzeria, prima ancora una conceria, una delle ultime attive a Matera. Oggi il locale è abbandonato.
Con la legge speciale del 1952, quando la Repubblica italiana ha stanziato 4,5 miliardi di lire per la costruzione di nuovi alloggi popolari e lo sgombero di tutti le abitazioni storiche definite “inabitabili”, la città di Matera non cambiava solo volto dal punto di vista dell’urbanistica, ma anche dell’identità sociale. Ma “ancora oggi, un tratto dell’attuale via Casalnuovo, nella memoria degli anziani, è ricordata come u Chənzarəiə, ovvero la zona dove erano ubicate le concerie con le fosse e le vasche riempite d’acqua che servivano per i bagni delle pelli”, si legge in Matera e l’Acqua (2016), pubblicazione edita da Parco della Murgia a cura di Alessandro Statuto e Giuseppe Gambetta. “La concia era assai praticata e parecchio diffusa era l’attività dei conciapelli” continua il testo. Non solo nella periferia di via Casalnuovo, ma anche in zone centrali: “Nei Sassi e nel Piano, nel Fondaco di Mezzo erano presenti tali botteghe”.
L’equivoco dei Sassi
Proprio la conceria del Fondaco di Mezzo rappresenta oggi una delle testimonianze più interessanti: “È stata interrata, insieme ad altri magazzini e opifici, alla metà del XIX secolo per ricavare sul piano strada lo spazio per l’attuale piazza Vittorio Veneto. Quando è tornata alla luce, c’erano ancora i ganci per le pelli”, riporta Francesco Foschino, guida, imprenditore turistico ed editore di Mathera, rivista trimestrale di storia e cultura del territorio arrivata al settimo numero. Sui Sassi, ci tiene a ricordare Foschino, grava un grosso equivoco, cioè che si tratti di grotte naturali: “Al contrario, si tratta di scavi artificiali realizzati nei costoni rocciosi di due vallate. Con il materiale di scavo erano costruiti gli edifici. I singoli scavi sono stati usati a lungo come depositi per il cibo e per la trasformazione di derrate agricole: le condizioni micro-climatiche li rendevano perfetti allo scopo. Solo dal XIX secolo, per il sovraffollamento dei rioni e l’inurbamento della classe contadina, sono stati convertiti in abitazioni”.
Laureato alla Bocconi, Foschino ha deciso di tornare a casa dopo esperienze professionali e di studio all’estero. Per le approssimazioni su Matera, nel 2019 Capitale Europea della Cultura, non conosce indulgenza: “Con il termine Sassi – ribadisce – si identificano i due quartieri fuori dalle mura della città medievale sorti in ambiente rupestre: il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano”. Foschino studia con la sua redazione due documenti del XVIII secolo, il catasto ostiario (1732) e quello onciario (1754), realizzati rispettivamente dalle amministrazioni asburgica e borbonica. “Tracciano l’impiego lavorativo di ogni nucleo familiare e, grazie all’immagine che ci restituiscono della città, sappiamo che i mestieri della pelle erano molto diffusi – racconta –, come il maestro conciatore e il conciatore semplice, così come sappiamo delle grotte impiegate per la conservazione delle pelli e della presenza di un mulino a servizio per una conceria”. Il successo della concia non dipendeva solo dalla disponibilità di bestiame, ma anche da quella (ancora più preziosa) di acqua: “Dei due fianchi della gravina di Matera uno solo è urbanizzato: c’è una ragione geologica – sostiene Foschino –. Entrambi i lati del canyon presentano uno strato inferiore di calcare di Altamura, impossibile da scavare con la sola forza delle braccia. Sopra di questo c’è uno strato di calcarenite di Gravina, invece di facile lavorazione. Solo il lato antropizzato ai primi due strati ne aggiunge un terzo di terreno fertile, utile per l’agricoltura, composto dal misto di argilla e conglomerati. All’incontro tra il secondo e il terzo strato ci sono molte sorgenti di acqua, come testimoniano le tante fontane del centro: non è un caso che le concerie che conosciamo si trovano tutte a questa altitudine”.
La croce
Cascione sa di un avo da parte materna trasferitosi alla meta del XVIII secolo da Venezia a Matera: “Appena arrivato, si è messo a lavorare nella pelle – dice –. Devo pensare che facesse lo stesso mestiere già da prima”. La sua famiglia si è mantenuta per generazioni nel settore, salvo poi darsi all’arte dell’ebanisteria. Il retaggio da conciapelli ha lasciato in Donato una certa curiosità per il mestiere: “Quando lavoravo al macello comunale di Matera, poi chiuso – racconta – mi regalarono una pelle di cavallo. La volli conciare al metodo antico, malgrado mi consigliassero di fare diversamente: l’ho sprecata. Secondo un modo di dire, la pelle non si deve alzare d’ nderr’, cioè poggiata al suolo deve stendersi morbida come un tappeto. La mia non lo faceva”.
Quando mi accompagna nel borgo di Casalnuovo, non lontano dall’omonima strada, Teresa Lupo mi spiega perché è facile distinguere le tante cantine dalla conceria che è ancora possibile visitare. “Le cantine sono composte da tre vani scavati in successione a quote diverse e collegati tra loro da stretti corridoi con gradoni – spiega –. La struttura della conceria, invece, è completamente diversa: è l’unica a presentare vasche ricavate nella parete della grotta o nel piano di calpestio”. Un elemento, però, accomuna i due locali: la presenza sui muri di croci in ferro, oggi deformate dall’effetto dell’umidità. La vinificazione e la concia sono due processi che prevedono la trasformazione della materia prima in qualcosa di diverso e di più nobile. Processi fallibili, dove basta anche solo un errore di dosaggio per compromettere il risultato finale. “Probabilmente le croci sulle botti e sulle vasche – argomenta Lupo – rappresentano la benedizione sulla pelle grezza che muta in materiale finito”.
La ricerca
Borgo Casalnuovo non è mai stato raggiunto da acqua corrente, fogne, allacci elettrici: per questo motivo, una volta abbandonato, non è mai più stato ripopolato. Per avventurarsi nel quartiere, abbarbicato a un costone della montagna modificato nei decenni da frane e smottamenti, bisogna aggirare un muretto e seguire un sentiero dove la pavimentazione posta dal Genio Civile è stata già in parte fagocitata dalla vegetazione spontanea. Teresa Lupo ci si muove con una certa disinvoltura, riconoscendo sia le opere dell’uomo che i prodotti della natura (“Guarda questo fiore detto Non Ti Scordar di Me; questa invece è l’ooteca di una mantide, il baccello dove depone le uova”). Disegnatrice, studi in Architettura ancora in corso, Lupo è abituata ai lavori difficili. Con un collega, Enzo Viti, ha mappato gli ipogei di un’area lunga circa 1,5 chilometri del centro cittadino, in un progetto di riscoperta che ha denominato Matera Sotterranea: “Abbiamo bussato all’uscio degli inquilini e chiesto di visionare le cantine – racconta –. Abbiamo strisciato in cunicoli o, aiutati da speleologi, ci siamo calati in intercapedini. Abbiamo esplorato vani di cui si era persa completamente la memoria”. Già, perché l’idea di una città millenaria abitata sin dal paleolitico può far pensare a un centro nei secoli sempre uguale a se stesso. I residenti della città lucana, invece, hanno manipolato a ritmo incessante i luoghi che abitavano e, a volte, è bastato chiudere una parete per cancellare pezzi della città sotterranea. “Nelle nostre indagini abbiamo trovato anche una conceria – afferma Lupo –, supponiamo d’epoca medievale, con la sua pietra per la molitura delle pelli”.
Il borgo di Casalnuovo è, a suo modo, un simbolo del percorso di Matera, una città che è sopravvissuta allo choc della legge De Gasperi e che, per il resto, ha aperto e chiuso capitoli della sua storia come fanno le città vive, cioè senza seguire uno spartito. “La conceria è stata probabilmente attiva fino agli inizi del Novecento – riepiloga Lupo –. Era posta di fianco a una stalla, con la quale condivideva l’aia su un terrazzamento naturale”. Oggi la struttura è abbandonata, degli arredi non è rimasto nulla: ci sono solo le nude pareti. Chiunque si arrischia ad arrivarci, può entrare e provare a indovinare a che servissero le canaline per le acque reflue e le vasche impermeabilizzate con il cocciopesto. A chi è appartenuta la struttura? Ci sono eredi che ne rivendicano la gestione? Non è facile rispondere. “Sulla vicenda urbanistica di Matera mancano studi scientifici, c’è ancora molta ricerca da fare”, considera Lupo. Sulla concia storica di Matera, pure.
di Roberto Procaccini (foto dell’autore)