Quanto vale la Bellezza Italiana: il case history della conceria

Quanto vale la Bellezza Italiana: il case history della conceria

Quanto vale, in Italia, l’Economia della Bellezza? Può sembrare dai contorni fin troppo sfumati, ma non è così. La Bellezza italiana è “sia un fattore produttivo, sia un soft power che nasce dalla cura e dall’eccellenza”. Lo dice Banca Ifis, che nel 2021 ha dato vita a “una piattaforma progettuale” che si chiama proprio così: Economia della Bellezza. Non potrebbe essere altrimenti, dato che si pone “l’obiettivo di dar voce a quel comparto trasversale dell’economia italiana che produce ricchezza attraverso una virtuosa traduzione in business dell’identità più profonda e delle tradizioni del nostro Paese”. Una “virtuosa traduzione” di cui si è parlato ieri a Venezia durante una giornata di studio promossa da Banca Ifis che ha visto la partecipazione anche di UNIC – Concerie Italiane (nella foto). Perché l’industria conciaria italiana, di questa Economia della Bellezza, rappresenta un case history da raccontare.

Quanto vale la Bellezza Italiana

Il valore economico della Bellezza italiana nasce dal lavoro di 386.000 imprese e “nel 2023, è aumentato, sia in termini assoluti sia nel contributo al sistema Italia”, spiega in una nota Ernesto Fürstenberg Fassio, presidente di Banca Ifis. In altre parole, secondo i dati raccolti dal gruppo bancario, è arrivato “a 595 miliardi di euro e sfiorando il 30% del valore complessivo del Prodotto Interno Lordo italiano”. Si tratta “di un dato in crescita del 19% rispetto ai 499 miliardi di euro di fine 2022, grazie soprattutto all’aumento dei settori moda, cosmetica, enogastronomia e turismo culturale”. Partendo da queste basi, è nata “l’edizione 2024 – la quarta – dell’osservatorio. Ha indagato la ricetta alla base del successo del made in Italy. E come “saper fare” artigiano e “personalizzazione” siano punti di forza nell’offerta globale e per competere sui mercati internazionali.

 

 

Il saper fare è distintivo

Il saper fare artigiano, spiegano da Banca Ifis, “è un elemento distintivo di competitività sul mercato domestico e internazionale. Un vero e proprio fattore produttivo che aiuta il made in Italy a spiccare nell’offerta globale per le sue caratteristiche identitarie e per la sua alta qualità”. Non a caso, “l’80% delle imprese della manifattura ritiene fondamentale il saper fare dei Maestri d’Arte per il posizionamento sui mercati. Il 91% delle imprese della manifattura ritiene che le competenze artigianali consentano di rispondere rapidamente a nuovi trend ed esigenze di mercato”. Non solo. “La tradizione made in Italy va di pari passo con l’innovazione. Per l’81% degli imprenditori la tecnologia rappresenta un fattore imprescindibile”. Perché è “in grado di incrementare la velocità di produzione, la sicurezza sui luoghi di lavoro, migliorare la gestione della supply chain e ridurre costi e consumi. Senza dimenticare il valore sociale del lavoro artigianale. Il 99% dei comuni italiani ha almeno un’impresa artigiana legata alla manifattura. L’80% dei lavoratori stranieri regolari è impiegato in un’impresa artigiana”.

Il case history della conceria

Nel contesto di tutta questa bellezza, la conceria italiana rappresenta un case history. A raccontarlo, ieri a Venezia, è intervenuta Fulvia Bacchi, direttore generale di UNIC – Concerie Italiane all’interno di un panel dal titolo “Made in Italy: forza e valore del Paese”. Sotto i riflettori non solo la matrice storicamente circolare del DNA conciario, ma anche la sua dimensione territoriale, definita da un preciso e ben definito modello distrettuale. Senza dimenticare come, nel caso della pelle italiana, il concetto di bellezza di declina in modo trasversale a livello culturale. Cultura di un materiale essenziale per la moda, lo stile, il design. Cultura (e responsabilità) d’impresa nel senso più ampio, come dimostrano le attività di mecenatismo culminate con il restauro della conceria rinvenuta negli scavi di Pompei.

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