Prima la circolare di novembre, dove (finalmente) Textile Exchange recepisce le direttive internazionali sulla terminologia dei materiali animali e, di fatto, difende la definizione di pelle. Da chi? Da chi ne abusa, pur non praticando la concia, a fini del marketing furbetto. Poi il plauso del mondo della pelle, che a sua volta difende con i denti la terminologia tecnica e che non è abituata al sostegno di soggetti terzi. Si congratulano, ad esempio, gli statunitensi di LHCA: “È un significativo passo avanti nella trasparenza del mercato e dell’etichettatura – è il messaggio che il presidente Stephen Sothmann affida a una nota–. Per troppo tempo i brand hanno nascosto ai consumatori il vero profilo dei loro materiali con termini ambigui e fuorvianti, come pelle vegana (proibito in Italia dal Decreto Pelle, ndr). Ringraziamo Textile Exchange per aver compiuto un passo così importante: speriamo che i marchi associati l’adottino”.
La definizione di pelle
Il tema è già emerso in rassegna stampa: anche ai vegani ormai risulta indigesto il marketing vegano. Perché anche loro si perdono nel labirinto di materiali genericamente indicati di “origine vegetale” ed energicamente presentati come “alternativi alla pelle”, ma col termine pelle nel nome commerciale. Nella diatriba interviene Textile Exchange, organizzazione non profit che intende accompagnare l’industria della moda nella sua riforma green. Che ai suoi associati (brand e fornitori) dice in sintesi: “Datevi una calmata”. O meglio: “Allineatevi alle direttive UE 94/11/CE, ISO 15115 ed EN 15987:2015”. Le norme che definiscono pelle, in estrema sintesi, i materiali di origine animale, che ne mantengono la struttura fibrosa con rivestimenti non superiori agli 0,15 millimetri. Tutto il resto, con la buona pace del marketing, finisce nella categoria “materiali artificiali non-fibrosi”.
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