Quando apparve, pubblicato lo scorso 4 gennaio 2019 sulle pagine centrali di LiberiTutti, inserto del venerdì del Corriere della Sera, l’articolo “La profezia dell’ecopelle” lasciò piuttosto perplessi, molto sbalorditi e sufficientemente preoccupati. Vi si raccontavano le gesta e il pensiero di Dan Matthews, vicepresidente Peta, “l’uomo – si leggeva nel pezzo – che da sempre si batte per una moda cruelty free”, profeta di “una rivoluzione” che “nel giro di poco” farà sì che “pelli e pellicce spariranno dalle passerelle”. Poiché l’articolo, oltre a non dare spazio ad alcun contraddittorio, conteneva una lunga serie di errati (diciamo così’…) utilizzi del termine “pelle” insieme ad accostamenti di senso ben distanti dalla sua reale identità di materiale circolare, UNIC – Concerie Italiane ha deciso di spiegare per bene al Corsera e ai lettori dell’inserto LiberiTutti tutto quello che in quell’articolo non andava. La rettifica è stata pubblicata lo scorso venerdi 26 aprile. E qui potete leggerla nella sua, doverosa, interezza.
La rettifica
“L’accostamento del termine “cruelty” alla produzione conciaria è inappropriato e ingiustificato, giacché nessun animale viene soppresso per produrre pelle ma solo carne per consumo umano. Le pelli grezze (materia prima delle concerie) sono uno scarto della macellazione a fini alimentari, che, se non recuperato come sottoprodotto dall’industria conciaria, intaserebbe le discariche, con ingenti costi ambientali. Pertanto, domanda e produzione di pelle non incidono sul numero di animali macellati, né l’eliminazione della pelle ridurrebbe i capi abbattuti, generando solo gravi problemi di smaltimento dei residui di macellazione. L’industria conciaria svolge invero un’attività di riciclo di un materiale altrimenti qualificabile come rifiuto; peraltro, è attenta anche al cd benessere animale per ragioni etiche ma anche economiche, giacché esso può tradursi in migliore qualità dei pellami. Il concetto di cruelty free, che fa solo leva sull’emotività, è in realtà discutibile se riferito a produzioni che dovrebbero escludere l’abbattimento di esseri viventi. Ogni attività economica impatta su esseri viventi e ambiente, anche quelle elogiate nell’articolo che ricaverebbero “pelli” da ananas, piante di finocchio, caffè e uva: gli stessi processi agricoli hanno serie conseguenze sulla biosfera, se si considerano gli effetti di pesticidi e antiparassitari o l’uso d’acqua, suolo e combustibili fossili per mezzi agricoli. La morale sottesa all’articolo contro le concerie a favore di asserite produzioni più etiche è parziale, superficiale e tace sul vero obiettivo etico di ogni industria, ossia la sua circolarità e sostenibilità (riutilizzo, recupero, conservazione di risorse). Infine, il riferimento a “Ecopelle” e a “pelli” ricavate da uva, caffè etc. per prodotti realizzati con materiale non di origine animale viola la L. 1112/66, che riserva, a pena di sanzioni, l’uso dei nomi cuoio, pelle e i loro derivati o sinonimi ai soli prodotti ricavati da lavorazioni di spoglie animali sottoposte a concia. Accostare la parola pelle ad un prodotto che non lo è, lasciando credere che abbia le stesse caratteristiche della pelle, costituisce pubblicità decettiva e scorretta e pratica commerciale ingannevole, come ritenuto dalla Commissione UE (Linee Guida Dir. 2005/29) in merito a Ecopelle”.
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