Non lasciare tutta l’iniziativa alle Procure. Non lasciare che a pagare siano solo i piccoli produttori e gli artigiani, cioè il primo e secondo livello di subappalto secondo il modello, molto diffuso, del conto lavoro. Bensì approfittare del polverone sollevato dall’inchiesta di Milano sul caporalato nel made in Italy per coinvolgere e responsabilizzare i brand e invertire quindi la rotta. “Il caporalato non è un incidente di percorso o un fenomeno stagionale, come in altri settori produttivi – ammonisce Flavio Sciuccati, senior partner di The European House – Ambrosetti e fondatore della Divisione Fashion & Luxury –. Il caporalato è l’aspetto sintomatico principale di due patologie molto evidenti e compresenti. La prima: la scarsa, o persino inesistente, tracciabilità e trasparenza dell’intera filiera produttiva. La seconda: l’iniqua distribuzione del valore lungo l’intera catena della moda e sui vari livelli di fornitura, passaggi che nel settore sono numerosi e prevalentemente terziarizzati”.
I primi committenti
Sono i primi committenti a determinare le regole del gioco lungo catene del valore: sono loro, osserva Sciuccati (in foto), che andrebbero portati al tavolo della discussione. Ma in Italia solo alcuni imprenditori si sono pronunciati in questo senso come, in particolare, Brunello Cucinelli e Antonio De Matteis (CEO di Kiton). Secondo Sciuccati, il tema è di tale rilevanza e rischio per la reputazione dell’intero made in Italy, da richiedere con urgenza un tavolo congiunto di confronto tra tutti gli attori della catena del valore. Chi? “Grandi brand e grandi gruppi del settore in testa – risponde –. Tavolo che potrebbe essere guidato persino dal Ministero del Made in Italy e vedere, una volta tanto unite e compatte, tutte le associazioni di settore.
La pressione sulla filiera della Moda
Per Sciuccati, che la filiera la studia da molto vicino e la assiste da più di 20 anni, una premessa è d’obbligo: responsabilizzare i brand non vuol dire deresponsabilizzare le imprese manifatturiere che “hanno sbagliato”. Ma, e qui si viene al nodo del problema, si sciuperebbe un’occasione se non si approfittasse dell’inchiesta di Milano (cui si è sommata quella dell’Antitrust a difesa del consumatore) per capire perché le stesse imprese produttrici si sono rivolte a certi subappalti irregolari. “Se uno guarda bene all’alta moda e al Lusso, nota che di fatto solo 25-30 brand, controllati da un numero ancora più piccolo di gruppi, fanno il mercato – spiega –. Sono la maggior parte di questi brand ad aver messo grande pressione sulla filiera. L’hanno progressivamente (soprattutto negli ultimi 10 anni) schiacciata sui prezzi sempre più bassi (e spesso corrisposti anche da lunghi tempi di pagamento). Lo hanno fatto per garantirsi moltiplicatori molto alti dei loro prezzi retail di vendita. Ma, così facendo, hanno messo a rischio la sopravvivenza della stessa filiera”.
Disparità negoziali
È questa posizione di estrema debolezza che ha spinto alcune aziende produttrici a cercare scorciatoie su cui ora si esprimeranno le toghe: “Non l’hanno fatto per avidità o cupidigia: se uno studia attentamente i bilanci, vede facilmente che la maggior parte delle PMI italiane, tranne poche eccezioni, si trovano con Ebit inferiori al 10%, ma allo stesso tempo viene chiesto loro di rimanere competitivi, investire e innovare”.
“Colpire i bersagli giusti”
Non tutti i big del Lusso sono responsabili alla stessa maniera della situazione, anzi si osservano modelli e prassi industriali molto diverse. “Hermès, Chanel e Louis Vuitton e in passato anche Gucci e Bottega Veneta, ad esempio, hanno fatto un egregio lavoro sulla filiera – chiosa Sciuccati –. Alcuni brand francesi fanno affidamento sulla produzione interna in Francia, dove si noti che il costo orario della manodopera è il doppio circa di quello italiano. Ma non hanno rinunciato certo a collaborare con la filiera italiana che ha un livello di competenze sia di sviluppo prodotto che di produzione, unite ad una estrema flessibilità, di gran lunga superiori”.
I diversi comportamenti
Salta all’occhio, intanto, la grande differenza di comportamento tra i due più grandi brand della moda del gruppo LVMH, LV e Dior. “Non faccio fatica ad immaginarmi – continua Sciuccati – repentini e importanti cambi di direzione da parte dei vertici industriali di Dior nei confronti della filiera italiana e del modo di rapportarsi ad essa. Oltretutto determinate prassi che portano alla non corretta proporzione del valore lungo la filiera sono più frutto e opera dei livelli di management intermedi. Questi sono guidati e orientati da macchinosi sistemi di MBO’s (gestione per obiettivi, ndr) o dalla prevalenza delle politiche dei vari merchandiser di minimo costo e massimo margine. Le stesse pratiche però non sono invece così note e valutate ai piani alti dei brand e dei maggiori gruppi”.
Responsabilizzare i brand con la moral suasion
La tempesta del caporalato si è abbattuta sulla filiera durante una gravissima contrazione dei consumi. Quando PMI e artigiani guardano alle aggregazioni e aprono alla finanza per dare continuità alla propria impresa, Sciuccati suggerisce e auspica un’azione di “moral suasion” (con un quadro di riferimento socio-economico a sostegno). Come? Creando un tavolo di confronto con i brand che coinvolga anche associazioni e Governo. “Il discorso da impostare sarebbe semplice: il made in Italy è un patrimonio da tutelare? Lo è sia per il paese che per i grandi brand che lo hanno eletto a proprio serbatoio produttivo in Europa? Allora che si cambino e si migliorino i metodi e le prassi”.
Altre soluzioni non ce ne sono
Da un lato è pericoloso aspettare che siano solo le Procure a risolvere la questione (“è solo questione di tempo e a breve interverranno anche negli altri distretti regionali”). Dall’altro è “illusorio pensare che possa essere il consumatore il giudice unico supremo della sostenibilità economica e sociale delle filiere – constata l’analista –. Forse sarà così tra 20 anni con le nuove generazioni. Noi come TEHA cercheremo di affrontare il tema con un tavolo di lavoro e discussione in occasione della terza edizione del Venice Sustainable Fashion Forum (24-25 ottobre 2024). Metteremo la prima pietra nella speranza che l’industria della moda dia seguito, unita e compatta e possibilmente anche lungo l’asse italo-francese, alle proposte che scaturiranno dal confronto”.
L’intesa è possibile
“Sono convinto che, al di là dei singolo negoziati, l’intesa strategica e di lungo termine tra brand e produttori sia ancora possibile – conclude Sciuccati –. Nessuno può (e deve) restare indifferente di fronte ad un evidente e documentata disparità dei volumi di affari e delle redditività. A maggior ragione se è interesse di tutti gli attori preservare la ricchezza, umana, sociale ed economica, di questo serbatoio manifatturiero e, anche, creare le condizioni affinché sia in grado di rinnovarsi ed essere sostenibile, in tutti i sensi, negli anni futuri”.
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