Il caporalato nella moda, tra doppiopesismo e ipocrisia

Il caporalato nella moda, tra doppiopesismo e ipocrisia

Tra doppiopesismo e ipocrisia. È a metà strada tra questi due poli, a leggere il Sole 24 Ore, che va trovata la ragione per la quale i brand della moda, anche alta o altissima, finiscono per favorire fenomeni di caporalato nella filiera. Le indagini della Procura di Milano e dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro hanno già colpito i subfornitori di Alviero Martini SpA, Giorgio Armani Operations e Manufactures Dior (tutte in amministrazione giudiziaria). E seguono le tracce di almeno altri 12 società. Ne emerge un quadro dove i marchi hanno atteggiamenti “doppi” (molto zelanti in alcune produzioni, ma molto superficiali in altre) e utilitaristici. Perché a ogni considerazione antepongono la tutela del proprio utile.

Tra doppiopesismo e ipocrisia

Chiunque abbia a che fare con brand di un certo livello sa quanto possano essere complicati i contratti e stringenti i capitolati. Ma, a quanto pare, gli stessi brand non si comportano allo stesso modo con tutti i fornitori. “C’è un termine che ricorre regolarmente in tutti questi procedimenti – si legge su Il Sole 24 Ore –: decoupling, cioè il disaccoppiamento del modello organizzativo”. In che senso? “In parallelo al modello formale, caratterizzato dal rispetto delle regole istituzionali – continua –, si sarebbe sviluppata un’altra struttura definita informale”. Questa “sembra chiudere un occhio rispetto alla gestione delle contoterziste, con l’obiettivo di implementare il business”. È questa attitudine, unita alla “bassa qualità dei controlli”, che consente agli appalti di finire in gestione delle aziende manifatturiere ora indagate. E non per reati di profilo minore, ma “con le ipotesi di sfruttamento del lavoro nero, con migranti (alcuni senza permesso di soggiorno) impiegati con disponibilità 24 ore su 24 e su macchinari da cui erano stati tolti i sistemi di sicurezza”.

 

 

Fattore tempo

Ma è anche il modo in cui sono formulati gli ordini, con rapporti sbilanciati tra volumi di produzione e tempi di consegna richiesti, a trasformarsi in un incentivo al subappalto rischioso. Le imprese finite all’attenzione della Procura sono italiane per sede, ma estere (spesso asiatiche) nel capitale e nella forza lavoro. Non potrebbe essere altrimenti. “Gli imprenditori sottolineano come la differenza culturale con la manodopera cinese influisca – spiega il quotidiano economico-finanziario –. Raccontano di lavoratori che chiedono di lavorare il più possibile, fino a 12 ore al giorno, per ottimizzare il tempo trascorso in Italia e poi tornare in Cina dopo un periodo di tre, cinque anni. Chiedono di ricevere il corrispettivo dei contributi in nero, perché tanto non li riscatterebbero”.

Se vengono prima i margini

È Giulia Crivelli per lo stesso quotidiano, poi, a porre l’accento su un altro fattore dell’equazione. Ai principi della globalizzazione molte produzioni sono andate all’estero, come sappiamo, per ragioni di convenienza economica. Negli ultimi anni, invece, si parla tanto del “reshoring”, cioè del rimpatrio (o almeno riavvicinamento, nearshoring) di parte delle linee delocalizzate. Ma non tutto il reshoring ha arricchito il sistema italiano. “C’è chi lo ha fatto seguendo le regole e accettando una rimodulazione dei margini – conclude – e chi invece ha cercato scorciatoie”. Perché la priorità era tutelare l’utile.

Foto da youtube.com

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