C’è il caso Fitwell, ad esempio. Marchio veneto della calzatura outdoor, nel 1999 ha iniziato a delocalizzare in Romania parte delle sue produzioni. In Italia rimaneva solo la linea dal maggior valore aggiunto. Dal 2009 è iniziato il percorso inverso: sempre più made in Italy, sempre meno Est. Oggi l’equilibrio è di nuovo rovesciato: Fitwell lascia alla Romania solo una parte minore delle proprie collezioni mid-range. Insomma, il reshoring non è un lusso. Il rimpatrio, per così dire, della manifattura non è una priorità solo dell’alto di gamma. Riguarda anche i segmenti inferiori. Giuliano Grotto, fondatore di Fitwell, spiega il percorso così: “Siamo tornati perché abbiamo radici profonde nel nostro territorio, Montebelluna. Per realizzare un prodotto di qualità, dobbiamo farlo in Italia. Abbiamo riconquistato non solo la qualità, ma anche l’orgoglio di produrre in casa”.
Lo studio UE
L’esperienza di Fitwell è una di quelle raccontate dallo studio Reshoring In Europe: Overview 2015-2018, realizzato dalle università di Bologna, Udine, Catania e L’Aquila per conto dell’agenzia comunitaria Eurofound. L’analisi indaga, in maniera trasversale ai settori manifatturieri, il fenomeno del rientro entro i confini comunitari delle produzioni in precedenza dislocate a Oriente (sia nel senso di Est Europa, che di Asia). Il trend non è di dimensioni ciclopiche: lo studio mappa in tutto 234 operazioni. L’Italia, insieme a Francia e Regno Unito, è tra i tre Paesi che ne ha beneficiato di più.
Il reshoring non è un lusso
Il fenomeno riguarda i brand dell’alto di gamma: questa non è una novità. Ma coinvolge anche quelli del medio: e questo, sì, colpisce. All’attenzione del monitor rientra anche il caso di Diadora. Nel 2017 il gruppo italiano della sportiva ha annunciato il piano triennale di reshoring del 10% della produzione. “La decisione è stata presa per sostenere il processo di innovazione di prodotto e avvicinare la produzione al dipartimento di Ricerca e Sviluppo”. Non solo. “L’azienda così è stata in grado di azionare la leva dell’etichetta made in Italy – continua il report – e di ridurre l’impatto ambientale”.
Parola di prof
“L’Italia con la Gran Bretagna è il Paese con il maggior numero di rientri principalmente dalla Cina, in passato meta di offshoring per una serie di motivi tra cui i bassi costi e l’inesauribile disponibilità di forza lavoro”. Così Guido Nassimbeni, coautore dello studio, spiega il fenomeno a La Stampa. Che cosa è cambiato in questi anni? Perché l’Asia calamita meno produzione? Sono cresciuti i costi, sono cambiati i quadri normativi, si è fatto più esigente il pubblico dei consumatori. “Gli stessi Paesi” che prima facevano incetta di subappalti ora “sono diventati meno attrattivi – continua Nassimbeni – soprattutto in settori come arredo, abbigliamento e automazione”. La questione va di pari passo con i piani dei brand. “La scelta strategica di ricollocarsi in alto – conclude –, con conseguente necessità di maggiore qualità della proposta, ha comportato un importante riconfigurazione del sistema produttivo. La vera sfida oggi è configurare un disegno produttivo internazionale con base in Italia”.
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