Lo dicono più o meno tutti, i giornali che le vicende le raccontano e gli stessi capi di Stato: la guerra commerciale non è il fine, ma un mezzo. La trade war non la vuole nessuno in sé per sé, neanche Donald Trump: è la terapia d’urto per arrivare a nuovi accordi commerciali. Il problema, però, è che la terapia prevede, per l’appunto, un urto e la filiera della moda rischia di essere schiacciata in un conflitto che non la riguarda.
Trump a tutto spiano
Che la guerra commerciale non è il fine lo dimostra il fatto che nel giro di pochi giorni gli States hanno prima introdotto il dazio del 25% sui prodotti d’importazione messicana e poi lo ha sospesi. È bastato che da Città del Messico assicurassero a Trump (in foto) di essere disposti a collaborare sui dossier, come il controllo dei confini. Il problema, osserva New York Times, è che questa strategia negoziale può funzionare con Messico e Canada (anche se proprio il Canada sta fin qui opponendo maggiore resistenza) perché l’export dei due Paesi è fortemente sbilanciato verso gli States. Ma Trump non può esercitare con la stessa semplicità la leva dei dazi verso la Cina.
Pechino, un osso duro
Pechino è un osso più duro e forse Trump, che nei suoi confronti ha proposto un dazio del 10%, se n’è reso conto. Già durante il primo mandato da presidente USA (2017-2021) la Repubblica Popolare ha imparato a prendere le contromisure. Come? Ha sviluppato un commercio estero più variegato per non dipendere troppo da Washington, ricorda NYT. Così come ha reagito penalizzando settori sensibili per gli States come i prodotti agricoli o il commercio di terre preziose e minerali. La stessa formula che applica ora: a breve distanza dall’entrata in vigore dei nuovi dazi statunitensi, la Cina impone un’aliquota al 10% su petrolio, attrezzature agricole e auto. E, nel pacchetto di misure ritorsive, sferra un primo colpo (più simbolico che pratico, scrive Repubblica) alla moda. Pechino ha inserito il gruppo PVH (Calvin Klein e Tommy Hilfiger), già oggetto di inchiesta da settembre, nella black list “delle entità inaffidabili” per le posizioni critiche assunte sul cotone dallo Xinjiang.
Prospettiva europea
La trade war nessuno la vuole, nemmeno in Europa, prossimo target nel mirino di Trump. In attesa degli eventi, l’UE si divide tra chi si prepara a incrociare i guantoni con la Casa Bianca (l’Eliseo su tutti). E chi invece, come l’Italia, predica il dialogo. La filiera continentale della moda, che già paga lo scotto delle frizioni del passato, non può che tifare per la pace. Secondo uno studio targato Prometeia di cui scrive Fashion Magazine, nel 2023 le aziende europee che esportano negli USA si sono sobbarcate in generale circa 2 miliardi di dollari di dazi. “Nel 2025 potrebbero salire a 6 miliardi in uno scenario di aumento selettivo”, cioè in caso di rincaro delle tariffe sulle categorie merceologiche già penalizzate, o “superare i 9 miliardi nel caso di un incremento generalizzato del 10%”. Il fardello delle imprese della moda, in particolare, rischia di passare dai 700 milioni di dollari del 2023 a una forbice compresa tra gli 1 e gli 1,5 miliardi. Non se ne sentiva il bisogno.
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