C’è, ma non si vede. O meglio: si teme, ma ancora non ci si deve fare i conti. Uno dei temi che tiene banco da mesi nel dibattito sulle sorti dell’industria del lusso è la ripercussione sui consumi delle tensioni tra Cina e Stati Uniti. Ai principi dell’estate la contrazione degli acquisti di Pechino, piazza centrale per il mercato d’alta gamma, era data così per scontata che una nota di Morgan Stanley ha mandato in fibrillazione i listini in tutto il mondo. A settimane di distanza, però, l’apocalisse ancora non si è scatenata. “Un’eventuale decelerazione della domanda cinese è stata una delle preoccupazioni più discusse degli ultimi tempi – ha spiegato a L’Economia Scilla Huang Sun, responsabile azionario settore lusso di GAM investments –. Il temuto rallentamento, però, non si è ancora verificato”. La natura del business del lusso rimane invariata: “Il focus principale delle società di settore continua a essere rappresentato dai Millennials, dalla strategia di vendita ominchannel e dalla digitalizzazione – dice –. Il settore è al terzo anno di ripresa e sono tante le società che hanno finora superato le aspettative nei primi tre mesi dell’anno. I prossimi numeri del terzo trimestre saranno osservati con grande attenzione”. Anche le più stringenti politiche praticate dalle autorità doganali cinesi sull’acquisto di beni di lusso all’estero da parte di privati non sembrano spaventare il comparto. Esiste un bicchiere mezzo vuoto: i big spender di Pechino muovono anche le vendite negli store di altri Paesi, tarpargli le ali può soffocare il mercato. Ma c’è anche il bicchiere mezzo pieno: l’estinzione del cosiddetto mercato parallelo, unito a un riequilibrio dell’architettura dei prezzi delle griffe, osserva il Financial Times, può comunque dare impulso agli acquisti in Cina.
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