Milano, la Prefettura vuole un database per arginare il caporalato

Milano, la Prefettura vuole un database per arginare il caporalato

Un database per censire la filiera. È la proposta della Prefettura di Milano per fare luce sulle supply chain della moda dopo i casi di caporalato che hanno coinvolto Alviero Martini SpA, Manufactures Dior e Giorgio Armani Operations. La proposta, che sarebbe da strutturare almeno per ora solo in Lombardia, fa già discutere. E della filiera di fornitura della moda parla anche l’amministratore giudiziario di Alviero Martini Spa.

Perché un database

La proposta della Prefettura di Milano, anticipato da ThePlatform, intende colmare le lacune nei controlli del settore. Come? Stabilendo un sistema comune per monitorare la catena di fornitura attraverso la creazione di una piattaforma centralizzata. Qui i produttori potrebbero caricare i documenti che certificano la propria conformità alle normative fiscali e sul lavoro. In questo modo verrebbero facilitati i controlli da parte delle autorità ma anche dei marchi.

 

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Il dibattito

L’adesione alla piattaforma sarebbe volontaria, mentre il respiro dell’iniziativa si limiterebbe alla sola regione Lombardia. La proposta è in fase di definizione, attraverso un gruppo di lavoro composto da agenzie governative e di polizia, sindacati e rappresentanti del settore moda. La limitata portata geografica, le difficoltà nel garantire la riservatezza di informazioni sensibili e la complessità della documentazione richiesta dallo schema sono alcuni dei punti da chiarire. Lo ha affermato a BoF il presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana Carlo Capasa. “Non è un problema di controllo – commenta invece Flavio Sciuccati di The European House – Ambrosetti –, ma di pressione che i marchi esercitano sui costi”.

Cosa succede in Alviero Martini SpA, intanto

L’avvocato Ilaria Ramoni è, insieme al commercialista Marco Mistò, l’amministratore giudiziario nominato dal tribunale di Milano per Alviero Martini SpA. “Dopo lo sconcerto iniziale, devo dire che ho sempre trovato grande collaborazione – afferma Ramoni al Corriere della Sera –. Al di là del caso specifico, di solito ci si trova di fronte a una sostanziale inconsapevolezza da parte dell’azienda capofila. Quando fai presente la situazione ti dicono: E noi cosa c’entriamo?”. Secondo la stessa Ramoni il punto non è se la borsa sia stata fatto da un artigiano cinese o italiano. Quello che non deve accadere è che i lavoratori vengano sfruttati, sottopagati. “A volte manca un po’ di cultura aziendale sul versante della legalità in senso più ampio – conclude Ramoni –. Ci sono anche casi in cui, alla luce dei fatti, ci si chiede come sia stato possibile non aver capito cosa si avesse di fronte”. (mv)

In foto (dal Ministero dell’Interno) la facciata del Palazzo della Prefettura di Milano

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