Un enorme Karl Lagerfeld di cartapesta, abbigliato come un angelo della morte e con l’inseparabile gatto in braccio, si aggirava la sera del 7 luglio nei pressi della Fontana di Trevi. Voleva entrare (non ci è riuscito) alla sfilata straordinaria che presso il gioiello artistico romano la maison Fendi ha organizzato per il suo 90esimo compleanno. Sotto il travestimento da Lagerfeld demoniaco c’era un militante dell’associazione green PETA, che ce l’ha con lo stilista tedesco per la sua “ipocrisia”: ostenta il suo amore per il gattino di casa, ma “infligge pene capitali violente a innumerevoli animali solo per delle pellicce pacchiane e volgari”. A nulla è valso il fatto che Lagerfeld abbia aderito, con il suo brand, alla prima “fur-free shopping street” d’Europa: la sua boutique di Amsterdam (in The Hartenstraat) non venderà più pellicce. Ma non bastano i contentini buoni per i titoli di giornale: gli animalisti duri e puri non gli daranno requie fino alla (loro) vittoria definitiva… Lo sa bene l’attrice Jane Birkin, che da decenni presta il nome a un prestigioso modello di borsa Hermès e che è vittima di un recente video satirico firmato PETA, in cui è ritratta come uno struzzo d’allevamento. La sua colpa è continuare a rendersi “complice”, pur di non perdere i diritti d’autore (circa 30.000 sterline l’anno, secondo la stampa inglese), dell’impiego della pelle animale nell’industria del lusso. Un anno fa, dopo la pubblicazione di una video-inchiesta sui fornitori sudafricani di Hermès di pelle di coccodrillo, la Birkin aveva minacciato di non prestare più il proprio nome alla maison francese. Dopo le rassicurazioni della griffe, l’attrice aveva ritirato l’intimidazione. Un “voltafaccia opportunistico” che PETA non le ha perdonato. (rp)
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