Kering gioca d’anticipo. Il gruppo francese del lusso annuncia di aver comprato (senza però comunicare l’entità dell’investimento) un allevamento di pitoni in Tailandia. La struttura garantirà il rispetto dei più alti standard internazionali di sostenibilità ambientale e sociale, comunica la holding che detiene Gucci, Bottega Veneta e Yves Saint Laurent, e comincerà a produrre pitoni adulti dal 2018, per entrare a pieno regime dal 2020. Secondo Marie-Claire Daveu, direttrice Sostenibilità di Kering, questo “è un investimento a lungo termine per l’approvvigionamento responsabile e sostenibile di pelle di pitone”. Il gruppo francese di casa Pinault già da tre anni sostiene il progetto di salvaguardia ambientale Python Conservation Partnership, che denuncia come a fronte di un mercato legale da 500.000 pelli annue (in crescita del 40% su base decennale), ve ne sia uno nero che fattura un miliardo di dollari. La mossa di Kering, si diceva, è d’anticipo. È di poche settimane fa la notizia che PETA, organizzazione animalista che spesso e volentieri ha il fashion system nel mirino, ha comprato un’azione di LVMH per portare nell’assemblea dei soci la battaglia contro l’impiego di pelli di rettile nelle collezioni delle sue griffe. Lo stesso ha fatto con Prada ed Hermès (per le pelli di struzzo). Kering, allora, in un colpo prende innanzitutto le distanze da un mercato, quello degli allevamenti di pitoni del Sud Est asiatico, spesso borderline della legalità, così da evitare futuri possibili imbarazzi. E poi si pone nelle condizioni di non dover, come i gruppi rivali, riaffermare i propri metodi di lavoro in risposta a un’accusa dei movimenti green, ma di dichiararli in anticipo e in maniera chiara. Per la serie, le regole le dettiamo noi: animal welfare sì, così come sì all’uso delle pelli esotiche. Il gruppo Kering ha di recente comunicato che l’apertura della nuova conceria per coccodrillo di Périers (160 addetti) dalla vecchia di Saint-Martin-D’Aubigny sarà completato entro il 2020. (rp)
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