La pelosa domanda retorica che titola l’approfondimento di Financial Times la dice lunga sulle intenzioni dell’autore: “Puoi fare a meno della pelle?”. Noi, allora, rispondiamo con un’altra domanda retorica: è un caso se un pezzo che si propone come vivace endorsement a favore delle alternative veg parli, sostanzialmente, di fallimenti? No. Anzi, è il disvelamento involontario di una verità: se i tessuti next-gen nati per sostituire la pelle ancora non ci sono riusciti, è perché non sono in grado di farlo.
L’endorsement (di cui non si sentiva il bisogno)
L’articolo di Financial Times è tanto entusiasta quanto impreciso. A proposito della pelle e della concia inanella tutte le scorrettezze che siamo abituati a leggere quando a scrivere è chi sostiene le alternative vegane. Ad esempio? Che sull’impatto ambientale della pelle pesa la zavorra del carbon footprint dell’allevamento. Sbagliato: la concia raccoglie e nobilita un sottoprodotto della zootecnia, che segue dinamiche produttive indipendenti, e anzi evita che lo stesso sottoprodotto si trasformi in uno scarto industriale da smaltire in discarica o in inceneritore. Ancora. FT scrive che è non è corretto definire la pelle “prodotto naturale” perché in alcune lavorazioni si applica sulla sua superficie una pellicola plastica. Be’, saranno “più naturali” i tessuti “next-gen” composti anche per il 90% di materiali sintetici. Per un debunking dettagliato, vi rimandiamo al post LinkedIn di Kerry Senior, direttore di Leather UK. Perché in questa sede ci preme soffermarci su un altro aspetto.
Una storia di fallimenti
“Per chi non vuole usare la pelle, non c’è mai stata tanta possibilità di scelta come oggi”, conclude FT. Che non può, però, tacere della pausa che si è dovuta prendere Bolt Threads con Mylo. Vale a dire il materiale derivato dall’apparato vegetativo del micelio che non ha raggiunto “la scalabilità commerciale e industriale” pur forte di centinaia di milioni di dollari di investimenti in oltre due lustri. Come in quei thriller dove l’indizio per la soluzione del caso è sotto gli occhi di tutti, ma solo l’investigatore più scaltro ha l’acume per riconoscerlo, l’autore spiattella en passant l’argomento che chiude la discussione sulla competitività dei materiali alternativi. “Ci vorrà ancora del tempo prima che siano disponibili su scala commerciale e a prezzi competitivi – scrive –. E potrebbero avere ancora qualche problema di performance da risolvere”. Quali? Lo spiega a FT un designer che preferisce rimanere anonimo “Mylo era incredibilmente difficile da lavorare. È rigido, quindi si rompe molto facilmente e non si può cucire. Quando l’abbiamo usato per pantaloni, abbiamo dovuto incollarlo al jersey, ma era così duro che la modella dello shooting non riusciva a sedersi”. Con Mylo è più facile fare borse, sostiene la stessa fonte anonima. Sarà, ma intanto, riconosce FT, la borsa Hermès in un materiale simile (MycoWorks) non è mai arrivata nei negozi: e forse neanche questo è un caso.
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