L’uso stesso della parola pelle, innanzitutto. Il rapporto tra l’industria conciaria e quella della carne. Il semplicismo con cui si assegnano patenti di maggiore sostenibilità. Sono i tre errori che Il Post e Fanpage commettono scrivendo di pelle e delle sue alternative. Le due testate online pubblicano, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, un focus sui tessuti per la moda prodotti a partire dai funghi. Entrambe prendono spunto da un approfondimento firmato dal Washington Post a fine agosto. Entrambe inciampano negli stessi sbagli.
I tre errori: ecco il numero 1
I termini – “Sta arrivando la pelle fatta di fungo”, titola Il Post. “Ora la pelle viene prodotta con i funghi”, rilancia Fanpage, che rincara: “Si sta sperimentando l’uso di un materiale innovativo molto simile alla pelle ma di natura vegetale”. Ecco, se un materiale è fatto a partire dal fungo, non può essere pelle e quindi non può dirsi tale. È pelle solo un prodotto che proviene dalla lavorazione delle spoglie animali, conservandone la struttura fibrosa. Tutto ciò che cade al di fuori del perimetro non può essere definito pelle o cuoio, sic et simpliciter. Lo impongono, oltreché il buon senso, le norme internazionali, incluso un decreto che a breve entrerà in vigore in Italia. Non è il caso dei due giornali appena citati, ma chi usa a sproposito i termini pelle e cuoio lo fa per suggerire che i materiali alternativi abbiano le loro caratteristiche e qualità. Cosa che, di solito, non è vera.
Errore numero 2
Il rapporto con la carne – “Le concerie occidentali lavorano quasi esclusivamente pelle di animali macellati per l’industria alimentare – si legge su il Post – e utilizzano gli avanzi per la piccola pelletteria”. Si percepisce un po’ di confusione (specie nel passaggio sugli avanzi per la piccola pelletteria), ma la testata diretta da Luca Sofri spiega in maniera più o meno sufficiente la filiera: la concia raccoglie uno scarto della zootecnia. Gli animali sono allevati per il latte, la carne e la lana, poi i bottali trasformano in un prodotto di qualità una materia prima altrimenti destinata alla discarica. Quando, però, Il Post aggiunge che lungo la filiera si assiste “alla difficoltà nel rifornirsi della pelle necessaria, sia per quantità che per qualità” dimostra ancora di non avere chiarissime le idee. Se è vera la questione della qualità, non lo è quella della quantità. Anzi, proprio in questo frangente di domanda debole, l’offerta di materia prima conciaria sopravanza la domanda. Quando, invece, Fanpage sancisce che lo sviluppo dei tessuti a base fungina consente “l’addio” allo “sfruttamento degli animali”, casca nell’errore di chi è convinto che siano allevati per la pelle.
Errore numero 3
Patenti green – “È un’alternativa più sostenibile a quella animale”, è pronto a festeggiare Il Post. Si basa su “un processo produttivo meno inquinante rispetto a quello tradizionale” (che sarebbe la concia) stabilisce Fanpage. È lo stesso errore commesso, nei decenni passati, con i materiali sintetici. Di questi si è celebrata la qualità green sulla base di informazioni parziali o di slogan, salvo poi scoprire, quando la produzione ha raggiunto proporzioni titaniche, che i tessuti sintetici pongono gli stessi problemi ambientali di tutti i materiali derivati dal petrolio. Ora si respira grande interesse sui nuovi materiali bio-based. Ma, ancor prima del metodo scientifico, la prudenza suggerisce di moderare l’entusiasmo.
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