Certo non difettano di protagonismo, quelli di PETA. Ma se dimostrassero di capirci un cuoio degli argomenti sui quali si arrogano il diritto di dettare legge (senza pudore e, soprattutto, rispetto del lavoro altrui) sarebbe meglio. Già, perché attiviste dell’associazione animalista si sono prese la scena durante la sfilata newyorchese di Coach con un’incursione delle loro. Cioè? Con una modella in déshabillé (PETA ha sempre saputo strumentalizzare il nudo femminile) e una complice con cartello. Come al solito, con la scenata le attiviste vorrebbero “sensibilizzare il brand statunitense (come recita il comunicato stampa) verso l’uso di materiali vegani”. Lo slogan “Leather kills” (la pelle uccide), però, la dice lunga del loro livello di comprensione della manifattura dei materiali per la moda: pari a zero.
Non capirci un cuoio
Cari amici e care amiche di PETA, ve lo diciamo ancora una volta: non un solo bovino, né tanto meno ovicaprino, è allevato per la sua pelle. L’industria zootecnica assolve a un altro scopo: produrre generi alimentari per il consumo umano (e lana, in alcuni casi). Quindi si produce carne nella misura in cui c’è domanda di carne sul mercato (negli ultimi anni in maniera assai maggiore di quella di pelle finita). Agli occhi di un allevatore e dell’industria di trasformazione, la pelle è un sottoprodotto. Cioè è un residuo di lavorazione, una roba che andrebbe smaltita in discarica (e la cronaca degli ultimi anni lo dimostra) se non ci fossero le concerie a nobilitarla trasformandola in un materiale per il fashion e il design. “Leather kills” è uno slogan senza senso: se tutti i brand del mondo smettessero di usare pelle all’unisono, l’industria della carne andrebbe avanti per la sua strada senza soffrirne le conseguenze. Chi conosce le dinamiche di filiera lo sa. Se volete essere presi sul serio, almeno studiate.
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