A poche ore dall’apertura degli stand, l’edizione numero 33 di APLF Leather&Materials+ Hong Kong mette subito sul tavolo la conferma di una verità più volte annunciata e discussa: l’area pelle cinese ha il fiato corto. O meglio: ha il fiato meno lungo di un tempo. È l’effetto di una trasformazione strutturale che reso il costo del lavoro a Pechino più oneroso rispetto a tutte le nazioni che le stanno attorno e che, progressivamente, hanno eroso le sue quote di produzione. “Però – ci dice un espositore italiano, appartenente alla collettiva di 58 aziende atterrata a Hong Kong sotto la guida di UNIC/UNAC – in queste prime ore di cinesi ne abbiamo visti parecchi. Il problema, semmai, che si vedono soprattutto loro”. Testimonianza, seppure parziale, che denota come il rallentamento notato in fiera un anno fa, conseguenza di una diversa gestione della fornitura da parte dei committenti americani, stia portando questi ultimi a ridurre la loro presenza ad APLF. È comunque presto per trarre conclusioni. Per confermare il trend cinese sono sufficienti le dichiarazioni di CLIA in conferenza stampa: minor produzione ed export di accessori, soprattutto calzatura; concerie che lavorano a regime ridotto con molte di esse sotto la lente governativa causa inquinamento e a rischio chiusura. Un quadro che, per ora, sottolinea come la domanda di pelli finite sia, effettivamente e generalmente, inferiore rispetto all’offerta di pelli grezze, il che mette i buyer cinesi in prima fila tra chi, oggi, non accetta proposte di rincari da parte dei detentori.
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