C’è fermento aggregativo in Italia. Nascono nuovi poli della manifattura, mentre quelli già esistenti si arricchiscono di nuovi pezzi, diversificando il portafoglio prodotti, la diffusione territoriale, la capillarità del servizio, la platea dei segmenti serviti. È un fenomeno che va avanti da qualche tempo. Che non si è fermato a causa della pandemia (anzi). E che non ha intenzione di rallentare davanti alle incertezze determinate dalla guerra in Ucraina. È il tema del numero 5 del mensile La Conceria (in distribuzione tra gli abbonati nel mese di maggio). Dove raccontiamo il fenomeno ascoltando i protagonisti: chi, ovvero, i percorsi di aggregazione li guida.
Un occhio alla mappa
Ci sono diverse ragioni per spiegare il perché si assista a un tale fermento aggregativo. La prima, forse la più importante, la offre il confronto (nella foto) tra il fatturato delle principali holding della moda e il PIL di alcuni stati sovrani. Insomma, se i clienti delle imprese manifatturiere sono diventati così grandi, c’è bisogno che chi si candida a essere loro fornitore sia se non altrettanto big, almeno adeguatamente strutturato. È un fattore ricco di possibili sviluppi. Tutti interessanti. La moda nostrana si rammarica (ancora) di non aver mai visto nascere una “LVMH italiana”, cioè una holding di griffe dal giro d’affari che si conta in (decine di) miliardi. Ecco, il made in Italy è ancora in corsa per la grande aggregazione delle imprese manifatturiere.
Chi ce lo spiega
È bene intanto leggere le testimonianze dei protagonisti del fenomeno aggregativo. Su La Conceria n. 5 intervistiamo Fabio Ducci (High Italian Manufacuring), Matteo Marzotto e Franco Prestigiacomo (Minerva), nonché Claudio Rovere (HIND) e Attila Kiss (Gruppo Florence). Non solo. Raccogliamo le opinioni e i piani anche di Bruno Conterno (Nice Footwear) e Stefano Giacomelli (Tivoli Group). Per chiudere con Simone Lenzi (Gab), pellettiere che al processo di aggregazione ha deciso di offrirsi.
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