Ascesa e declino di Brioni: la cura Kering non basta, la crisi del marchio arriva al MISE. Per ripartire fari puntati (ancora) sui Millennials

Tra i suoi più fedeli clienti c’era Vladimir Putin. Ma Brioni nel corso degli anni ha vestito anche Barack Obama e, prima ancora, James Bond. Nome iconico del formale italiano,  Brioni, fondata nel 1945 a Penne, dal 2012 è diventata parte della holding del lusso francese Kering. Ma dove in altri casi il passaggio sotto i colossi internazionali ha portato in dote un nuovo slancio, nella case history di Brioni si è accompagnato ad una crisi manageriale e stilistica (dal 2016 in poi ha cambiato tre direttori creativi) che l’ha portato ad un nuovo tavolo di crisi al Ministero dello Sviluppo Economico che si è tenuto nei giorni scorsi a Roma. Come anticipato, non è che l’ennesimo capitolo di una lunga parentesi di difficoltà dell’azienda che dura da quasi una decina d’anni e che è divenuta più critica dal 2016 ad oggi. Diversi i fattori che hanno giocato a sfavore del marchio: dapprima la recessione del mercato americano, uno dei bacini strategici di Brioni. Da allora Brioni ha cercato nuove piazze puntando soprattutto al mercato orientale e a quello russo ma i risultati, evidentemente, non sono stati all’altezza delle aspettative. In mezzo c’è stata la crisi di identità del mondo del formale al quale il marchio appartiene, cui si è aggiunta la scarsa chiarezza dal punto di vista dello stile. Il giro di valzer degli stilisti è iniziato tre anni fa con Brendan Mullane: era stato chiamato nel 2012 per dare un approccio più fashion al marchio, ma lo sviluppo di outerwear, sportswear, calzature e accessori destinate a un pubblico più giovane ha avuto il risultato contrario, generando confusione nel mercato. Poi è stata la volta di Justin O’Shea: la sua Metal attitude non ha convinto e l’addio è arrivato solo sei mesi dopo la sua nomina. A lui è seguita Nina-Maria Nitsche. Ora il timone è passato all’austriaco Norbert Stumpfl. Nel frattempo, si sono susseguiti tavoli tecnici per scongiurare anche gli esuberi. Nel 2016 si parlava di 400 su un organico di 1.150 dipendenti, poi evitati. Ma a distanza di due anni gli esuberi ci sono comunque stati (poco più di un centinaio) e molti lavoratori hanno dovuto accettare una riduzione di orario e una conseguente riduzione salariale. All’ultimo tavolo di monitoraggio al MISE l’azienda, oltre ad illustrare l’andamento finanziario del 2018, che si è dimostrato stabile, ha presentato il nuovo piano industriale che, come spiegano dal Ministero, “prevede la diversificazione delle linee di abbigliamento in base alla fascia d’età dei clienti, in particolare quella più giovane”. Tra le linee strategiche del piano ci sono anche un incremento della produttività e dell’export verso i mercati nazionali ed esteri tra i quali, in particolare, quello cinese e russo, che nell’ultimo periodo si sono rivelati favorevoli. Ma i timori per il futuro non sembrano dissolti. (mb)

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