Certo, è legittimo chiedersi quale sarà l’impatto sul sistema del lusso delle inchieste della Procura di Milano. Lo fa BoF, ponendo la questione, però, nella prospettiva del rapporto dei brand con la comunità finanziaria e con i consumatori. Ma qui preferiamo allargare lo sguardo. Chi pagherà per il caporalato, è il nostro timore, non sarà tanto chi ha boutique nelle strade dello shopping, ma fabbriche nei distretti produttivi d’Italia.
L’analisi di BoF
BoF parte da un presupposto chiaramente condivisibile: “L’inchiesta di Milano minaccia l’asset di maggior valore per il lusso: la reputazione del brand”. Perché, ça va sans dire, le strategie di marketing e posizionamento dei marchi si basa sull’inattaccabilità del prodotto e del processo. Il cliente esige (a fronte di certi prezzi) il massimo da ogni punto di vista. Ma, paradossalmente, la questione si solleva quando le urgenze del settore sono altrove: “Il punto centrale è il livello della domanda globale – commenta Adam Cochrane, analista di Deutsche Bank Research –. Con tutto quello che succede in Cina, nella comunità finanziaria nessuno si preoccupa del caporalato”.
E allora chi pagherà per il caporalato?
Ecco, il punto è che i gruppi della moda hanno le risorse per tutelare il proprio posizionamento e, allo stesso modo, la percezione che il pubblico internazionale ha di loro. Quindi, hanno gli strumenti per reggere anche a questa onda d’urto, così come sono usciti tutto sommato indenni dai guai con il fisco o dalle figuracce geopolitiche. Chi questa forza non ce l’ha, invece, è il made in Italy nel suo insieme. Il rischio più concreto è che a pagare il danno d’immagine di quanto fatto da alcuni fornitori border line della legalità (in attesa dell’accertamento delle responsabilità) siano le aziende sane. Dopo le inchieste di Milano, cui si somma ora quella dell’Antitrust, nell’immaginario collettivo Dior e Armani (giusto per citare due dei quattro marchi fin qui coinvolti) rimarranno Dior e Armani. Sarà l’etichetta “made in Italy” a valere di meno.
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