Mentre il linciaggio di D&G sui social ancora non si placa (da ultimo è diventato trend topic su Twitter l’hastag #Dolcegabbanaracist), le cronache raccontano che la Polizia della Repubblica Popolare si è disposta a difesa dei 58 negozi che il brand gestisce nel Paese, per assicurarsi che a nessuno venisse l’idea di passare dalle lamentele digitali al teppismo vero e proprio. La storia dell’infelice campagna promozionale D&G rinnova quotidianamente il proprio bollettino, ormai di guerra. Se alcune proiezioni riprese da Libero sostengono che il solo boicottaggio degli e-tailer valga un danno da 36 milioni di euro (da sommarsi ai 15 spesi invano per il mega-show di Shanghai, poi annullato in fretta e furia), gli analisti si interrogano ora su quali saranno le ricadute di medio termine. Il Sole 24 Ore ricorda come per Dolce & Gabbana le vendite cinesi portino in cassa circa 400 milioni di euro l’anno: Pechino vale, insomma, circa un terzo del fatturato. Ma Francesco Sisci, sinologo che scrive per Asia Times, contattato da Il Giornale innanzitutto spiega come i problemi sulle piattaforme online siano molto complessi, dal momento che “l’e-commerce in Cina per certi prodotti vale il 90% delle vendite”, ma non esclude che la campagna d’odio e di allontanamento dei consumatori possa avere ricadute anche su mercati culturalmente vicini, come Giappone e Corea, fino agli States. “In questi giorni abbiamo ripensato moltissimo, con grande dispiacere, a tutto quello che ci è successo – recita il messaggio affidato dai due stilisti (nella foto) ai social – e a quello che abbiamo causato nel vostro Paese e ci scusiamo moltissimo”. Basterà a placare gli animi? Alla stampa locale un manager del market place Ymatou ha spiegato di aver rimosso d’un colpo poco meno di 50.000 prodotti griffati D&G perché “la madrepatria viene prima di tutto”. Il lieto fine è ancora lontano.
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