La calzatura patisce un po’ di meno, va peggio all’abbigliamento. C’entrano, innanzitutto, il ridotto potere d’acquisto degli italiani, le bizze metereologiche e le attitudini al consumo in trasformazione. Fatto sta che nel 2018 gli italiani hanno speso i prodotti fashion 27,7 miliardi di euro, cioè il 2,5% in meno su base annua. Lo ha spiegato Fabio Savelli di Sita Ricerca a margine del convegno “Scenari e previsioni 2019 per il fashion system”. I dati a disposizione non gettano luci migliori sul prossimo futuro: i primi 4 mesi dell’anno in corso hanno registrato un ulteriore calo del -2,7%, mentre recupero previsto per il secondo semestre non salverà il settore dal chiudere in area negativa (-1,8%). Altrettanto lento sarà il 2020: la previsione è di un finale -1,1%. Le analisi di Sita Ricerca, dicevamo, fotografano anche un cambiamento di comportamento. Gli italiani si confermano un pubblico attento alla scontistica: le vendite a prezzo ridotto rappresentano nel 2018 il 53,8% del totale (nel 2010 la sua quota era il 35%). Sono in aumento, poi, i frequentatori della rete: “Il mercato è sostenuto dalle vendite online – commenta Savelli con MFF – che crescono al +21% rispetto al 2017, raggiungendo una quota del 12%. Nel 2018 i fashion e-buyer sono arrivati a 14,5 milioni, +34% rispetto al 2014”.
E i brand come stanno?
Anche i big nostrani del top di gamma soffrono o, per lo meno, non gioiscono quanto i concorrenti stranieri. Perché? Nel triennio 2016–2018 i gruppi italiani del lusso non sono cresciuti complessivamente né in termini di fatturato né di redditività. Lo sostiene il report realizzato da Pambianco Strategie d’Impresa analizzando i dati di 15 società italiane indipendenti (tra cui Prada, Armani, OTB e Ferragamo, per fare qualche esempio) o controllate da gruppi stranieri al di fuori delle conglomerate di settore. Stando a quanto riporta il Sole 24 Ore, è una questione di dimensioni: le realtà italiane sono troppo piccole, il fatturato medio è di 1,8 miliardi contro i 14,5 dei concorrenti. Anche la redditività è inferiore: l’Ebitda medio delle griffe estere è del 26,6%, contro il 17,2% delle italiane. Il nanismo si dimostra un limite quando, come in questi frangenti, la capacità di investire è fondamentale per cogliere le opportunità di crescita. Si stagliano casi come Moncler e Cucinelli, in grado di correre. Ma il settore ha bisogno di riorganizzarsi. Come? Ad esempio con le aggregazioni.
Foto da Imagoeconomica