È in corso una furiosa battaglia su Bottega Veneta. Circola dal 17 luglio sui social un video. Per molti urticante. Perché? Testimonia come la commessa di una boutique fiorentina si rifiuti di vendere merce a un cliente russo. O meglio: come la commessa spieghi a un cittadino della Federazione che la griffe ha dato istruzione di non chiudere transazioni con clienti russi. Il video ha suscitato, dicevamo, enormi polemiche, per lo più strumentali. È partita anche una campagna di boicottaggio, il cui principale risultato fin qui è stato abbassare il punteggio delle recensioni allo store su Google. Buona parte del pubblico, però, ignora non solo che la stessa policy (cioè non vendere a clienti russi) è già in uso presso altre griffe. Ma anche che così facendo le stesse griffe dell’alta moda non si esercitano in un’arbitraria “russofobia” (come sostengono i denigratori), ma applicano alla lettera le sanzioni UE in vigore dallo scorso marzo.
La grana russa
Un’agitazione simile scoppiò intorno a Chanel quando si seppe, lo scorso aprile, che aveva smesso di vendere a clienti russi nelle sue boutique in tutto il mondo. A meno che questi non certificassero di non essere più residenti nella Federazione né intenzionati a importarvi i prodotti. Una faccenda piuttosto difficile da gestire, ma ineluttabile. “Così rispettiamo pienamente le sanzioni contro la Russia – spiegò ai tempi Bruno Pavlovsky, presidente delle attività moda di Chanel –. Abbiamo dovuto informare tutti i nostri clienti che i nostri prodotti non potevano essere importati in Russia”. È la stessa situazione in cui si trova ora Bottega Veneta, così come chiunque produca beni il cui prezzo retail è pari o superiore a 300 dollari. È quanto prevede il pacchetto di sanzioni del 14 marzo. Chi parla di deliberata russofobia dei brand sbaglia. O è in malafede.
In foto (Shutterstock) una vetrina Bottega Veneta
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