Sono almeno due le contraddizioni che accompagnano Miuccia Prada da quando si è cimentata nell’industria dell’alta moda. La prima, confessa a Vogue in una lunga intervista, riguarda la sua stessa identità: giovane militante di sinistra destinata a una carriera nel lusso (e che carriera). La seconda riguarda proprio il segmento di mercato in cui opera: il più esclusivo di tutti, che lei ha interpretato però tenendo sempre i fari puntati verso quello che accade al di fuori del suo perimetro fisiologico.
Le contraddizioni di Miuccia
La prima, dicevamo, è tra la sua professione di stilista del lusso (definizione che però trova “volgare”, ci informa Vogue) e la sua identità di donna impegnata, con dottorato di ricerca in Scienze Politiche e, ai tempi, tessera del PCI. Una contraddizione (“la più grande della mia vita”) che l’affliggeva soprattutto all’inizio della carriera. “Ho sempre pensato che ci fossero solo due professioni nobili: la politica e la medicina – confessa –. Fare vestiti era come un incubo, per me. Mi vergognavo tanto, ma l’ho fatto comunque. L’amore per le cose belle ha prevalso”. E meno male, aggiungiamo noi.
E quella del segmento
Dall’intervista di Vogue si deduce quanto quella di Miuccia Prada sia una intelligenza vivace. Di una vivacità che ha saputo mettere in discussione gli stessi confini del lusso in cui operava varando una sua idea di ugly chic: “Per qualche ragione, quello che chiamano cattivo gusto non è mai stato accettato nella moda – dice –. All’epoca era una specie di scandalo, un insulto. Anche adesso, la moda è talvolta il luogo della bellezza stereotipata. Ed è proprio il cliché della bellezza a dover essere rimosso, sì, cambiato”. Poi, Miuccia ha forzato anche i confini merceologici, ad esempio anticipando di decenni la spinta del segmento verso l’athleisure aprendo per prima la linea Prada Sport. Perché la stilista non segue le tendenze, bensì prova ad anticiparle: “È più interessante, più nuovo, più audace, più eccitante – conclude –. Mi piace il rischio”.
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