Le quattro grandi debolezze del mercato del lusso post-virus

Le quattro grandi debolezze del mercato del lusso post-virus

Il mondo dei consumi di beni di lusso è ancora in letargo causa Covid-19. The Economist analizza le quattro grandi debolezze messe a nudo dalla pandemia, che ha bloccato anche il fashion system e le nicchie di riferimento.

Le quattro grandi debolezze

La prima riguarda, of course, vendite e fiducia del consumatore. È impossibile rimanere immuni a questa crisi: non ci sono solo le fashion week cancellate e con loro tutto l’indotto andato in frantumi. O le influencer a corto di foto e di post con l’hashtag adv incorporato. “Al culmine della pandemia tra marzo e maggio, le vendite sono crollate del 75% circa rispetto al 2019, secondo il Boston Consulting Group – scrive la testata finanziaria –. Si sono lentamente riprese quando l’Asia, poi l’Europa e l’America, hanno iniziato a riaprire. Anche così, le prospettive per il mondo del lusso sono tutt’altro che scintillanti”.

Il sistema produzione vendita

La seconda debolezza riguarda la logistica del mercato, nonché l’architettura dei prezzi. In questo momento è in atto una profonda revisione del sistema di produzione e di vendita nel settore lusso. Mentre i marchi del lusso, ricorda The Economist, sono in gran parte europei, alcuni si trovano negli Stati Uniti. Ma la maggior parte dei clienti sono di provenienza asiatica: dei 281 miliardi di euro spesi nel settore lusso nel 2019, oltre la metà arriva da lì. “I soli acquirenti cinesi sono passati dall’1% degli acquisti nel 2000 al 35% l’anno scorso” rilevano i dati Bain. Ma gli acquisti di lusso erano per quasi il 70% figli dello shopping in Europa. Cosa si può fare? Portare l’Euro-chic into Chinese hands, scrive The Economist, non è naturalmente semplice: il turismo è di fatto bloccato, mentre fino ad oggi maison come Gucci e Vuitton vendevano in Cina a prezzi maggiorati di un terzo rispetto all’Europa. La revisione dei prezzi è in corso e dà impulso a un processo già iniziato.

Il ritardo digitale

Che la vendita dei beni di lusso online sia cresciuta, in media intorno al +7-8%, è un’evidenza. Ma questo non toglie che ci sia un ritardo sul canale digitale. Il risultato, ricorda The Economist, rappresenta la metà della progressione percentuale registrata dal fast fashion (comunque in crisi), rappresentato su tutti da Zara e H&M.

La filiera

La quarta debolezza riguarda la sicurezza della filiera. Le maison, ammonisce la testata, dovrebbero assistere la supply chain, che manco a dirlo è in larga parte italiana, e che si è esposta in maniera molto importante in questi mesi. Un tessuto di piccole aziende, dove l’artigianalità dialoga con l’innovazione, che ha rimesso in moto lavoratori e manovia a tempi di record e in sicurezza.

Leggere la situazione

Alcune cose sono abbastanza certe, nonostante tutto, secondo The Economist. Come il calo delle vendite di un terzo rispetto al 2019 per il 2020 e una ripresa tangibile solo all’inizio del 2022. Ma è anche vero che non tutti sono ugualmente vulnerabili: nei periodi di crisi si punta ai marchi consolidati, come ad esempio CHANEL e Vuitton, che proprio poco prima dello scoppio della pandemia avevano aumentato i prezzi. Ci sono dei beni, come borse e vestiti, che rimarranno invenduti o finiranno nei circuiti online alternativi. Ma il fenomeno del revenge shopping cinese è un dato plastico di come gli status symbol del lusso non crolleranno. Il paradigma dovrà cambiare per gli stilisti: se a giugno erano già pronti a veicolare le immagini delle collezioni autunno-inverno, oggi devono spingere sui capi della primavera-estate, affinché l’invenduto sia il meno possibile. E questa, come già ribadito da Giorgio Armani, dovrebbe diventare la nuova norma. (aa)

Immagine Shutterstock

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