Un tweet (poi rimosso) a favore dei ribelli di Hong Kong fa calare la censura cinese sul campionato NBA (e soprattutto sulle iniziative commerciali collegati). Nike, che poggia sul mercato della Repubblica Popolare quasi un quinto del suo giro d’affari, trema. Mentre gli analisti, di fronte all’ennesimo incidente diplomatico tra brand occidentali e autorità asiatiche, concludono: “È il soft power cinese e non potete evitarlo”.
L’incidente
Tutta colpa di Daryl Morey. Il general manager di Houston Rockets, team che milita nel campionato di basket statunitense, ha affidato a Twitter un messaggio a sostegno delle pretese di autonomia di Hong Kong. A nulla sono valse le scuse dello stesso Morey, del suo club e dei vertici dell’NBA. In tutta risposta, in Cina hanno sospeso la trasmissione del (altrimenti seguitissimo) torneo di pallacanestro, annullato eventi con il pubblico e, come riporta Fashion Network, rimosso dagli scaffali di Alibaba e JD.com i prodotti della lega cestistica.
I problemi di Nike
I problemi, ora, sono di Nike, main sponsor di Houston Rockets e dell’NBA. Il marchio ottiene dalla Cina continentale il 16% delle vendite: nel trimestre chiuso ad agosto (il 21esimo di crescita di fila) i ricavi si sono espansi del 22%. Analisti sentiti da Financial Times osservano che questo incidente da solo non può compromettere 30 anni di penetrazione commerciale nella Repubblica Popolare e di fidelizzazione dei consumatori locali. Ma può rovinare il bilancio, questo sì.
Soft Power
Da Dolce & Gabbana a Vans, la casistica dei brand che si rovinano la vita con incidenti di percorso in Cina è ormai lunga. E non è un caso. Secondo The New York Times è, anzi, il simbolo del soft power di Pechino, potenza globale che si propone (a seconda dei casi) come controparte o alternativa degli Stati Uniti. La Russia sovietica, osserva il quotidiano, era un avversario più semplice da affrontare per i player occidentali proprio perché poggiava su un “sistema sclerotico” dove i segni della cultura americana (moda, cinema, musica) erano semplicemente banditi. La Cina pone, invece, una sfida difficile “quanto lucrativa”: apre le sue porte ai player economici americani, occidentali aggiungiamo noi, “ma a patto di una sempre crescente richiesta di sottomissione alle vedute del Partito Comunista come prezzo d’ingresso”. Il risultato è l’attuale coacervo dove, in cambio dell’accesso a un ricco mercato, i brand sono chiamati a periodici atti di umiltà. Il tema, of course, è politico: la Repubblica Popolare, conclude il NYT, usa la propria influenza economica per “colpire chiunque delegittimi le scelte o l’autorevolezza del governo”.
Immagine dello store NBA aperto a Pechino lo scorso marzo
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