Sono solo parole, direbbe qualcuno. Ma le interviste a margine di eventi o sfilate sono dichiarazioni di intenti. Il disvelamento di un metodo. Per questo vale la pena soffermarsi sulle relative implicazioni. Da un lato all’inizio dell’avventura in Valentino Alessandro Michele si concentra sull’io. Dall’altro Francesca Bellettini (in foto a sinistra), che da deputy CEO per lo sviluppo dei brand di Kering sa bene quali siano i vantaggi e i rischi dello “one man show”, spiega che ora l’obiettivo è il ragionamento di squadra.
Michele si concentra sull’io
Gliel’hanno chiesto in maniera diversa da testate diverse, ma prendiamo lo scambio che Michele dopo la sfilata d’esordio alla guida del brand Mayhoola ha avuto con Repubblica. “Cosa risponde a chi dice che il suo Valentino ricorda il suo Gucci?”, chiede l’intervistatrice. “Che io sono sempre io – risponde l’altro (in foto a destra) –. Onestamente sarebbe grave se la mia mano non fosse riconoscibile”. Una presa di posizione che può sembrare superba, ma che non stupisce i lettori più attenti de La Conceria. Lo scrivevamo sul numero di luglio/agosto del nostro mensile: ne La Vita delle Forme, il libro dato alle stampe alla vigilia dell’incarico in Valentino, lo stilista afferma che “il lavoro di ricerca passa dalla propria ambiguità e che, per questo, non prescinde dall’io dello stilista. Michele ci spiega, insomma, perché il suo ego barocco e rinascimentale è il suo stesso metodo”.
Lavorare sul noi
A lungo si è detto che i brand della famiglia Kering sono rimasti indietro perché non hanno seguito l’esempio delle griffe che si sono affidate ai team di creativi (come quelli di LVMH, ma non solo). Ma hanno continuato sulla strada del marchio che s’aggrappa anima e corpo a un solo grande stilista che firma tutte le collezioni, dagli accessori all’interior design. Ecco, la cronaca degli ultimi ingaggi in Gucci (dove Michele ha costruito la propria personale epopea) raccontano che è cambiato lo spartito. Le parole di Bellettini a BoF confermano che è questa l’intenzione. “Un’azienda così grande non può funzionare con un uomo solo al comando. È troppo rischioso, assolutamente troppo rischioso. In Gucci c’era un po’ di questa cultura prima, quella del leader forte che detta la direzione. Va bene quando bisogna governare una crescita tumultuosa. Ma in un momento di transizione serve un approccio collegiale, dove si mettono insieme competenze diverse”.
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