Qualche segnale positivo, come la “resilienza degli accessori” e la vivacità dei cinesi, c’è. Ma poco altro. Non c’è da fare troppo affidamento sul revenge spending: niente ripresa a V, come si dice quando a un calo verticale segue un recupero altrettanto rapido. La pandemia di Coronavirus lascia il settore del lusso alle prese con numeri da crisi profonda: nel 2020 le perdite dei ricavi globali oscillano tra il -20 e il -35%. Perché il settore riannodi i fili con il percorso di consolidamento pre-Covid bisogna aspettare il 2025. Sono le conclusioni di Altagamma Monitor Update, webinar dove Altagamma e Bain & Company, in collaborazione con i partner, hanno presentato le stime per l’industria del lusso aggiornate ai tempi della pandemia.
I numeri della crisi
Il 2019 si era chiuso per il segmento con un giro d’affari complessivo di 281 miliardi di euro: la cifra valeva il +4% su base annua. Coronavirus spazza via le prospettive positive per il 2020. Il secondo trimestre, considera Bain, dovrebbe registrare il -50/60%, mentre l’intera annualità, a seconda dell’andamento dell’emergenza sanitaria, si attesta in una forbice tra il -20 e il -35%, cioè tra i 180 e 220 miliardi complessivi. Ipotizzando che anche il 2021 sarà all’insegna delle difficoltà, bisogna attendere il 2022-2023 per tornare ai volumi di business pre-crisi (275-285 miliardi). Per mettersi alle spalle le scorie della pandemia, dunque, e riprendere il percorso di crescita interrotto con il lockdown, l’appuntamento è per il 2025 (320-340 miliardi).
Niente ripresa a V
Addio sogni di repentino recupero, quindi. “Quando nel 2009 il settore soffrì gli effetti della crisi finanziaria, la rapida ripresa fu possibile grazie al boom del mercato cinese – spiega Clauda D’Arpizio (Bain) –. Questo ha permesso ai brand, che molto hanno investito in Repubblica Popolare, di compensare le difficoltà in Europa e negli Stati Uniti”. Il primo trimestre del 2020, segnato da lockdown e social distancing, ha già visto il lusso perdere il 25% del giro d’affari. Difficile far affidamento, ora, sulla sola Cina per il recupero: Pechino diverrà ancora più centrale nelle dinamiche del business, ma non può da sola tenerlo in piedi. “Il Paese offre segnali positivi. Non proprio di revenge spending, parola che non amo, ma di disponibilità al consumo – continua D’Arpizio –. A differenza del resto del mondo, dove il virus ha colpito le grandi città, come Milano, Madrid e New York, in Cina l’epidemia non ha riguardato le principali metropoli. L’effetto psicologico sulla consumer confidence è diverso. Già adesso i cinesi sono il primo pubblico per il lusso. Dopo che le misure restrittive annullano le possibilità di viaggio, la loro spesa diverrà ancora più nazionale”. La Cina, dunque, diventerà riferimento pure geografico del business.
I segnali positivi
Qualche segnale positivo, dicevamo, c’è. Secondo il Consensus Altagamma, ad esempio, pelletteria e calzatura (rispettivamente -16% e -17%) soffrono una crisi più lieve dell’abbigliamento (-21%). Condivide la valutazione Bain, che vede negli accessori una tipologia di prodotto “resiliente”. Perché? Conoscono una varietà di prezzo molto diversificata e parlano, per questo, a una platea ampia. Si prestano meglio, oltretutto, al commercio online. Proprio il digitale è un altro elemento cui guardare con fiducia. La crisi per molti versi, sottolineano i relatori, è un acceleratore di trasformazioni in corso. L’e-commerce ha già offerto performance importanti (+16% secondo Consensus Altagamma), pur nelle difficoltà del frangente: perché molti brand e piattaforme, durante la quarantena, hanno dovuto chiudere i magazzini e hanno incontrato limitazioni nella logistica. A pieno regime, il canale non può che fare di meglio.
Ritorno al prodotto
Tanti cambiamenti non riguardano solo distribuzione e relazioni col cliente, ma giocoforza l’intera industria. “Il lusso viene da una stagione di crescita dell’aspetto esperienziale – osserva Federica Lovato (Bain) –. Gli effetti di Coronavirus ne rivedono ora l’importanza: l’attenzione torna a concentrarsi sul prodotto e sul pricing”. Le conseguenze risalgono la filiera: “Alla supply chain sarà chiesto di essere flessibile, glocal e, soprattutto, sostenibile – conclude –: si produrrà meno, ma a maggior valore e impatto zero”.
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