Se questo è il nuovo lusso cinese, siamo messi male

Se questo è il nuovo lusso cinese, siamo messi male

La stampa internazionale ha preso l’esordio di Xiaomi nell’automotive come il simbolo del nuovo lusso cinese. O meglio, come la cartina al tornasole dello status (e, temiamo, delle prospettive) dei consumi d’alta gamma nella Repubblica Popolare. Perché il marchio della telefonia ha presentato SU7 (in foto), una vettura sportiva che nell’estetica evoca le più prestigiose supercar europee, ma che costa appena (per il segmento di riferimento) 30.000 euro.

Il nuovo lusso cinese

Frankfurter Allgemeine Zeitung, che guarda alla novità dalla prospettiva di una testata tedesca, teme che Xiaomi SU7 possa essere il “killer cinese di Porsche”. Che la supercar fatta in casa, insomma, possa intercettare quel pubblico che in altri tempi avrebbe affrontato spese maggiori per i bolidi made in Germany. Il Corriere della Sera estende il ragionamento all’intero mercato del lusso. Perché in Cina si accavallano diverse pulsioni, tutte di segno negativo. I consumi sono già in crisi, come sappiamo dalle trimestrali della stragrande maggioranza dei player del settore (a partire da LVMH e Kering). Mentre la spinta culturale pare orientata alla spesa morigerata e, soprattutto, domestica.

 

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Le due parole chiave

La prima è “luxury-shame”. Il nuovo corso di Xi Jinping passa sempre da stimoli all’economia, ma (a differenza del recente passato) senza concessioni allo sfarzo. E così la Cina, a lungo uno dei mercati più munifici per l’alto di gamma dalla grande avidità per i brand occidentali, si è riscoperto non solo sparagnina, ma discreta. Pechino non vuole ostacolare i consumi, ricorda il CorrSera, ma vuole che siano “egualitari”: è considerato spiacevole ostentare la ricchezza, perché rappresenta “la differenza di reddito”. La seconda è: “nazionalismo”. Quando Xi Jinping ha vietato i prodotti Apple a tutti i dipendenti pubblici sembrò un fatto limitato al mercato dei device tecnologici. Invece segnava un precedente: Pechino iniziava a trasformare il proprio mercato da miniera d’oro dei brand esteri a risorsa fisiologica di quelli nazionali. È vero che ci sono ancora maison che in Cina segnano buoni risultati (come Cucinelli). Ed è vero che queste pulsioni arrivano da lontano, si riconoscevano gli inizi già in pieno rimbalzo post Covid. Ma se il nazionalismo fashion attecchisse profondamente tra i consumatori d’alta moda, sarebbe un punto di non ritorno.

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