Gli articoli delle griffe costano sempre di più. Era inevitabile. I colli di bottiglia lungo le catene del valore e i rincari di costi produttivi e logistici sono arrivati ai cartellini della merce in boutique. Tra i brand, chi può pratica periodici ritocchi dei listini. Anzi, l’esercizio si è trasformato in una prova di forza tra griffe dell’alto di gamma. L’aggiornamento dei cartellini nelle varie geografie, come vi raccontiamo su La Conceria n. 2, è una pratica ordinaria. A cambiare dopo la pandemia è il privilegio di intervenire sui mercati senza urtarne la suscettibilità. Qui sta la prova di forza: il mercato è fortemente polarizzato e sono in pochi a potersi permettere di aumentare i prezzi senza correre il rischio di perdere clienti.
Come uscirne indenni
A proposito delle griffe nelle condizioni di praticare gli aumenti, secondo Luca Solca, senior research analyst global luxury di Bernstein, c’è da aspettarsi che saranno proprio loro “ad alzare di più i prezzi”. Di chi parliamo? Del gruppo Dior, di Chanel, di Celine. L’unica eccezione, al momento, è quella di Hermès. È una buona notizia per i supplier delle stesse griffe? Vuol dire che queste saranno a loro volta meglio disposte a pagarne i maggiorati prezzi delle forniture? “Non credo che lo faranno passivamente e senza opporre resistenza – risponde Solca –. A me sembra che nella negoziazione tra grandi marchi e fornitori, il potere sia soprattutto nelle mani dei primi”.
I fornitori “generici e sostituibili” sono quelli che si trovano nella situazione peggiore. C’è una sola possibilità, allora, per accrescere il proprio potere contrattuale: clicca qui per leggere l’intervista a Luca Solca su La Conceria n. 2.
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