Tutti alzano i prezzi in Cina (ma non tutti possono permetterselo)

Tutti alzano i prezzi in Cina (ma non tutti possono permetterselo)

Tutti alzano i prezzi in Cina. Ma attenzione, dicono gli analisti, perché ci si può far male. Molti top brand del lusso hanno ritoccato i cartellini (soprattutto per le borse) negli store della Repubblica Popolare. Un modo, tra le altre cose, per allinearsi al rimpatrio dello shopping del pubblico cinese e per recuperare le perdite delle altre aree geografiche. La strategia risponde anche a un’altra esigenza: i marchi non vogliono che l’eccessiva disponibilità dei propri prodotti ne intacchi l’esclusività. Per gli analisti, però, il ritocco dei cartellini presenta limiti evidenti.

Tutti alzano i prezzi in Cina

L’anno scorso una borsa Alma BB di Louis Vuitton costava 9.350 yuan: oggi è in vendita a 10.900. Un incremento di prezzo non imposto in una soluzione, ma arrivato per step. Altre griffe del lusso, come Chanel, Dior, Gucci e Prada, hanno adottato la stessa modalità. Gli aumenti sono stati generalmente applicati a livello globale, ma la strategia funziona meglio in Cina, dove il consumo di beni di lusso è in ripresa. “Quest’anno, i consumatori cinesi non viaggiano in Giappone o in Francia – spiega a Vogue Business Francesca Di Pasquantonio, managing director di equity research per Deutsche Bank –. Quindi non fanno confronti. L’anno prossimo, però, potrebbero essere in grado di farlo”. Secondo il parere degli analisti di mercato, l’incremento dei cartellini è una soluzione temporanea e farci troppo affidamento è un errore. La stessa Di Pasquantonio prende come esempio quello che è successo con l’orologeria di lusso: il settore ha praticato in Cina aumenti ininterrotti tra il 2010 e il 2014, perché il mercato era in grande sviluppo. Quando il boom è finito, la strategia ha mostrato i suoi limiti.

Insostenibile

Secondo Flavio Cereda, analista di beni di lusso di Jefferies, “andando oltre il 2020, non vedo la politica di aumento dei prezzi in Cina come sostenibile“. L’analista aggiunge che ritoccare i prezzi tre o quattro volte in un anno è “un po’ aggressivo”. Altri possibili ritocchi non sono da escludere, “ma probabilmente in Europa e negli Stati Uniti per ridurre il divario di prezzo con la Cina”. Zuzanna Pusz di UBS afferma che non tutti i marchi posso permettersi questa politica. Il vero termometro è il mercato di seconda mano: “Se un brand ha un valore di rivendita basso, ciò vuol dire che non ha potere di determinazione del prezzo”. (mv)

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