Il boom giapponese era una delle poche notizie positive dell’ultimo anno. E i brand del lusso sono riusciti a smorzare pure questo. Certo, nel momento positivo del mercato nipponico c’entravano le fluttuazioni monetarie: lo yen debole attirava i consumatori cinesi, che trovavano più conveniente fare shopping nel vicino Paese insulare che in patria. Ora che lo yen si è rafforzato, si è esaurita la spinta dei cinesi. Non è solo colpa dei cambi. Le griffe ci hanno messo del loro, aumentando in pochi mesi i prezzi in Giappone del 10,5% e stemperando ancora di più l’attrattività del Paese.
Il boom giapponese
Lo riscontra l’analisi condotta da Bernstein e Databoutique.com (marketplace di dati web che raccoglie e compara dai siti ufficiali i prezzi che i brand praticano per gli stessi articoli sui mercati internazionali). Come racconta MFF, i prezzi in Giappone sono aumentati in media del +10,5%, attestandosi al +11% rispetto a quelli praticati in Francia. Dal punto di vista operativo, riconoscono gli analisti, gli aumenti servivano a compensare la moneta debole. Sarà. Ma, di certo, “i brand hanno riportato un rallentamento costante delle vendite in Giappone nel terzo trimestre dell’anno”. LVMH, Kering, Prada e Moncler riportano in particolare “un impatto negativo sproporzionato in particolare a settembre”. È evidente: ai cinesi è passata la voglia di fare compere in Giappone. E il pubblico locale come si comporta? I risultati sono “misti”: c’è a chi va bene (Prada e Hermès) e a chi no (LVMH e Moncler).
Imparare dagli errori
La vivacità giapponese non era strutturale, ma figlia della congiuntura: non poteva durare per sempre, anzi dava già segni di rallentamento, come vi abbiamo raccontato. L’analisi di Bernstein e Databoutique, però, racconta l’incapacità delle griffe di trovare davvero correttivi agli errori che loro stesse riconoscono di aver fatto. Il sistema ha spinto con troppa leggerezza e troppo velocemente l’acceleratore sul rialzo dei prezzi. L’hanno riconosciuto, solo nei primi venti giorni di novembre, il CEO di Prada Andrea Guerra, i vertici di Mulberry e Burberry, le indagini di Bain & Co e Tommaso Maria Andorlini, CEO del gruppo LuisaViaRoma. Se allargassimo lo spettro temporale, si allungherebbe pure la lista dei rei confessi. Il sistema, però, è ricascato nello stesso meccanismo: per tutelare la marginalità, ha zavorrato i volumi di vendita. Finendo per perdere l’una e gli altri.
In foto Shutterstock, uno scorcio del quartiere dello shopping Ginza (Tokyo)
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