Chi ha problemi a farsi accettare; chi, invece, solo su una varietà va liscio come l’olio. Lavorare nella filiera della pelle, e noi lo sappiamo bene, a volte può portare a strani conflitti con i radical green. È il caso degli Inuit della Groenlandia, regione politicamente dipendente dalla Danimarca, messi da anni sotto torchio dalle associazioni animalisti per i metodi della loro caccia alla foca. La stampa internazionale riporta come la condanna morale delle sigle green abbia comportato grosse difficoltà al commercio di pelli di foca, ormai acquistate dal governo danese più per ragioni di welfare che di mercato. Proprio per questo Ditte Sorknaes, della conceria di stato Great Greenland, lavora con l’UE a un progetto di tracciabilità dei pellami tramite codici QR che rassicuri i consumatori sull’origine dei materiali e, al contempo, assicuri lo sbocco commerciale a una delle attività tradizionali degli Inuit. Dall’altra parte dell’Atlantico, invece, gli operatori di Petska Fur, raccoglitore di pelli e pellicce statunitense, spiegano come ci sia una varietà di pelle sulla quale il lavoro va via facile. “Il coyote – dicono a The Indipendent – al momento è l’unico prodotto che commerciamo senza grandi problemi”. Sul perché non si dilungano. C’è da pensare che, a differenza di cervi e procioni, i coyote negli States non suscitano grande simpatia.
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