Quando alla fine dello scorso inverno si è inasprita la questione degli Uiguri in Cina, diversi brand chiamati in causa hanno professato ottimismo. La situazione, dicevano, non era fuori controllo. Ora, però, che gli stessi brand hanno reso note le proprie performance finanziarie, si ha la prova empirica: il boicottaggio lascia il segno sui conti. I risultati di marchi come Nike ed H&M sono deludenti o apertamente negativi. La lentezza, avvertono gli addetti ai lavori, rischia di trasformarsi in disaffezione duratura da parte del pubblico della Repubblica Popolare. Lo abbiamo scritto nel numero 6-2021 de La Conceria: questa degli Uiguri è la “cortina di cotone” che separa Pechino dai suoi partner occidentali.
La Cortina di Cotone
“Non è semplice in questa sede riassumere i termini della questione uigura, etnia cinese di religione islamica che popola la regione dello Xinjiang – si legge su La Conceria –. Basti dire che ai movimenti indipendentisti locali Pechino risponde, in nome dell’antiterrorismo, con una strategia definita dai movimenti umanitari come una forma di genocidio culturale. Tra le misure messe in campo dal PCC, almeno a partire dal 2014, ci sono i campi di rieducazione dove i membri della comunità uigura sarebbero, tra le altre cose, costretti ai lavori forzati”. Ecco, è per rispondere a questa situazione che i grandi gruppi della moda internazionale hanno preso le distanze dal cotone e dai prodotti in cotone provenienti dallo Xinjiang. Pechino non ha gradito. E per questo sono partite campagne di boicottaggio contro Nike e H&M, come dicevamo in apertura, ma anche contro Adidas e Burberry.
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Il boicottaggio lascia il segno
Ci sono i risultati a parlar chiaro. Nell’ultimo anno fiscale le vendite di Nike in Cina, ad esempio, ammontano a 1,9 miliardi di dollari. Non male, direte voi. Ma al di sotto della soglia dei 2,2 miliardi attesa dagli analisti. Il CEO del gruppo, John Donahoe, ha gettato acqua sul fuoco. “Nike è un brand parte della Cina e per la Cina. Siamo presenti sul mercato da 40 anni, siamo certi che si confermerà di rapido sviluppo”. Per H&M, intanto, il primo semestre è stato molto positivo. Tranne che per la Cina, dove cala in doppia cifra. Pechino vale solo il 5% del giro d’affari del gruppo del fast fashion. Ma perdere il contatto non è una buona cosa. Il CEO Helena Helmersson ha dovuto riconoscere che “la situazione rimane complessa”. Anche perché, ammoniscono gli osservatori di Al Jazeera, la campagna di boicottaggio dei marchi occidentali ha connotati fortemente nazionalisti. I consumatori cinesi potrebbero scegliere brand locali. E non tornare più indietro.
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