Dopo il Coronavirus, cambieranno molte cose: i tempi del fashion system, ad esempio, che si volgono alla lentezza dopo tanta rincorsa del fast. Ma anche le modalità di svolgimento degli eventi, sia fieristici che di presentazione delle collezioni. La moda italiana si dice pronta ai ritmi post-virus. Si dice anche all’ascolto, perché sarebbe sbagliato affrettare tutte le scelte ora: “Dobbiamo darci un termine di 12-18 mesi per comprendere come avremo assorbito le novità imposte dal virus e come saremo tornati a una nuova normalità – spiega Claudio Marenzi, presidente di Confindustria Moda, durante il talk di Vogue Italia “Unfolding the Future of Fashion” –. Se prendessimo adesso decisioni definitive su fashion week e fiere commetteremmo un errore all’insegna del vecchio modo di pensare. Quello di cui vogliamo liberarci, quello improntato alla velocità. Rallentare vuol dire anche darsi il tempo di comprendere, prima di deliberare”.
I ritmi post-virus
“La lettera di Giorgio Armani è molto importante: lui è un simbolo e il suo appello a che il lusso abbandoni le pratiche del fast fashion è fondamentale”, aggiunge Carlo Capasa, presidente di Camera Nazionale della Moda Italiana. L’industria nostrana del bello e ben fatto, che si prepara ad almeno un round di fashion week in digitale, condivide lettera per lettera la posizione di re Giorgio: “Soprattutto per quanto riguarda l’idea di produrre meno, per produrre meglio – continua Capasa –. Anche questo è sostenibilità. È un dialogo con i consumatori, chiamati a diventare più consapevoli”. In questo senso è importante il riavvicinamento alla stagionalità classica, che comporta anche la rinuncia ai mid-season sales: “Altrimenti si confonde il cliente: il prezzo che più rappresenta il valore del capo – spiega il numero uno di CNMI – è quello pieno, non lo scontato”.
La delusione del Governo
La moda italiana a fine aprile ha potuto riattivare, un po’ alla volta, gli stabilimenti produttivi. Dal 18 maggio, invece, hanno riaperto le boutique. La Fase 2, riconoscono i vertici associativi, è lenta. Ma, ciononostante, è necessaria: il sistema ha rischiato di collassare su se stesso, riconoscono, mentre i clienti internazionali (perché all’Italia fa capo gran parte del lusso mondiale) erano inquieti. Rimane, a circa tre mesi dall’esplosione del Coronavirus, la delusione di non aver ottenuto dal Governo l’ascolto auspicato: “Abbiamo presentato documenti e proposte – ricorda Capasa –, ma sono mancati l’orgoglio e la lucidità di riconoscere nella moda un settore strategico per l’economia nazionale. L’Esecutivo ha preferito concentrarsi su altri comparti. Ma così ha commesso un errore”. Quale? “Sottovalutare che il fashion contribuisce in maniera rilevante all’export – conclude –, con livelli occupazionali importanti”.
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