LEM FENICE, “un raggio di speranza” per il Made in Italy

LEM FENICE, “un raggio di speranza” per il Made in Italy

[articolo sponsorizzato] “Se crediamo nel Made in Italy? Fondamentalmente questa è la nostra grande scelta”. A parlare è Daniele Gualdani (nel riquadro), amministratore unico di LEM, azienda specializzata nei trattamenti superficiali per accessori metallici del lusso e dell’alta moda. Gualdani ci spiega perché ha investito in un nuovo stabilimento ultramoderno a Bucine (Arezzo), soprattutto in un contesto di crisi economica e di tremenda instabilità del mercato. Il suo è un “raggio di speranza”. Non a caso la nuova sede produttiva dell’azienda è stata chiamata “LEM FENICE”, come simbolo di rinascita e ripartenza.

Un raggio di speranza

 Cosa rappresenta LEM FENICE per voi?

Per noi questo non è un punto d’arrivo, ma di partenza. Vogliamo ripartire da dove tutto si è interrotto tre anni e mezzo fa con l’incendio che ha distrutto la nostra fabbrica. Noi abbiamo perso il nostro primo sito produttivo nell’aprile 2021, nel momento in cui c’era più lavoro e il mondo della moda era nel pieno della salute. Ci siamo persi veramente un’opportunità di crescita importante. Abbiamo comunque cercato di continuare a evadere gli ordini, organizzandoci in turni estenuanti dislocati in altri stabilimenti, dove lavoravamo fino alla mezzanotte di sabato.

Cosa è successo in questi tre anni e mezzo?

Dal 2021 a oggi si è passati da un boom di ordinativi a una crisi che chiaramente non potevamo prevedere. Quello del nuovo stabilimento è un progetto che abbiamo pensato nel momento in cui c’era un po’ più di lavoro. Ora ci ritroviamo dentro la più grande crisi che la moda abbia mai affrontato. Ma siamo orgogliosi di inaugurare la nostra sede oggi, in un momento di difficoltà, perché il nostro sforzo ha un significato ancora più importante.

Cosa significa per voi?

Aprire in una fase di crescita economica per il settore è semplice e banale. Farlo in questo momento qui vuol dire mandare un segnare forte alle persone che lavorano qui. Perché ovviamente tutti hanno paura di quello che sta succedendo ed aprire un nuovo stabilimento adesso rasserena anche l’indotto locale. È come un raggio di speranza. È un segnale anche psicologico che vogliamo dare a noi stessi e al mercato.

Fiducia nel Made in Italy

Il vostro è anche un invito a restare a produrre in Italia?

Confidiamo ancora che i nostri clienti finali credano nel Made in Italy, perché fondamentalmente questa è la nostra grande scelta. Abbiamo avuto opportunità in passato di andare a produrre all’estero, più a basso costo, ma noi siamo sempre rimasti fedeli al puro Made in Italy. Anche se oggi sono due parole e non hanno nessun significato legale. Noi crediamo in questa cosa e speriamo che i nostri clienti facciano lo stesso.

State lanciando un messaggio fortissimo alla filiera, ma soprattutto alle griffe…

Noi investiamo su quello che richiedono adesso i brand, cioè la tracciabilità, la trasparenza, la sicurezza. Tutti temi che magari in grossi gruppi e grosse aziende si possono permettere, ma a cui non sempre la filiera è in grado di rispondere.

La trasparenza della filiera

 Secondo lei la filiera del lusso è trasparente?

Quello di cui ci siamo resi conto con questa crisi per la prima volta è che nessuno ha un’idea precisa e dettagliata di quanto è ampio il sistema moda, perché non c’è tracciabilità. Solo alcuni brand hanno un pieno monitoraggio della propria supply chain, la tracciabilità di chi sono tutti i loro fornitori. Però, questa cosa deve essere estesa. Il brand deve avere totale conoscenza di qual è la sua filiera produttiva fino all’ultimo fornitore. Compreso il fornitore che non è in Italia, perché questo è un altro grande tema. Per poter competere a certi prezzi si va a trovare un fornitore sempre più piccolo, addirittura a un certo punto si fa arrivare parte della fornitura dall’estero. Questo non è che può essere fuori dalla tracciabilità.

Pensa al passaporto digitale dei prodotti?

Certo. Quando si compra un prodotto sarebbe bello che con un QR code si potesse leggere tutta la filiera di fornitura che ha partecipato alla produzione di quel capo, di quell’oggetto, compreso i fornitori all’estero. Allora a questo punto abbiamo una tonalità di trasparenza, tracciabilità, e diciamo che diamo al consumatore anche il valore aggiunto probabilmente di un prodotto Made in Italy o Made in UE.

Cosa dovrebbero fare i brand del lusso per valorizzare questo aspetto?

Io penso che i nostri clienti, per tornare a vendere più di quello che stanno vendendo, non dovrebbero più contare solo sul proprio nome. Ci vogliono dei valori dietro quel nome e da quello si deve ripartire. Perché se il cliente finale ha la percezione un oggetto non sia realizzato totalmente in trasparenza, alla fine viene attirato facilmente da un prodotto simile che costa un decimo. E questo valore non lo rafforzi con belle parole, ma con i fatti.

La trasformazione del sistema moda

Gli analisti parlano di una necessaria trasformazione del sistema moda: è d’accordo?

A me piace fare questo esempio, è chiaro che nel settore lusso di moda l’1% della popolazione mondiale compra il 30% dei beni di lusso, e questa fetta di mercato alto spendente ci sarà sempre. Però c’è l’altro 70% dei beni che viene comprato dai famosi clienti aspirazionali, la famosa middle class. E non si parla a livello italiano, ma mondiale. Se vado a comprare un paio di sneakers e in un negozio trovo una buona scarpa da 150-200 euro, e poi entro in altri negozi e trovo la stessa sneaker di un brand famoso a 800-900 euro, è chiaro che io consumatore mi rendo conto che la pago 600 euro in più rispetto all’altra. E, al di là della disponibilità di acquistarla o meno, voglio capire dove vanno quei 600 euro in più. Li devo mentalmente giustificare, anche se li posso spendere. Quel prodotto deve avere un valore intrinseco superiore di qualità dei materiali o di valori.

Il valore del Made in Italy

In questo contesto il Made in Italy dovrebbe essere il valore aggiunto?

In Francia esistono ancora tre compagnie automobilistiche, in Italia zero. Perché da sempre i francesi hanno comprato le macchine francesi, noi italiani andiamo a comprare le macchine tedesche. Essere francese per i francesi ha un valore, ma un prodotto Made in Italy o Made in UE ha un valore per il consumatore se è totalmente fatto in questo Paese.  Allora ecco le 600 euro in più, se il consumatore ha il dubbio che quel prodotto venga fatto esattamente come quello da 200 euro, o addirittura utilizzando dei sistemi illegali, di sfruttamento delle filiere, come è successo a qualche progetto ultimamente, cosa preferirà?

Il Made in ha perso il suo appeal?

Quando ho iniziato a fare questo lavoro, 30 anni fa, sui nostri oggetti bottone c’era sempre scritto due cose: Made in Italy e Solid Brass, perché in quel momento Solid Brass rappresentava un materiale semi-nobile che conferiva all’oggetto una durabilità quasi eterna. Oggi, sui tantissimi prodotti che facciamo qui dentro non c’è più scritto né Made in Italy né Solid Brass. È un esempio di come in 30 anni la nostra filiera sia cambiata.

Come invertire la tendenza

Come si può invertire la tendenza?

Voglio raccontare un aneddoto particolare. Quello che è successo in Svizzera con l’orologio. In Svizzera c’era un problema analogo a quello che vive l’Italia ora col prodotto moda. La maggior parte degli orologi svizzeri veniva realizzata in Asia e fondamentalmente, a un certo punto, il governo svizzero si è reso conto che c’era una perdita di know-how e di posti di lavoro. Hanno cambiato la norma per poter fare un orologio Made in Swiss, alzando in maniera importante la percentuale delle lavorazioni che dovevano essere fatte in Svizzera. E questo ha riportato buona parte delle lavorazioni dell’orologio dall’Asia alla Svizzera.

Vorrebbe lo stesso in Italia?

Oggi l’Italia, essendo dentro l’Europa, non può farlo, perché ci sono le norme europee. Può farlo solo l’Europa. O noi convinciamo l’Europa a fare quello che ha fatto la Svizzera sull’orologio, ma credo sia difficoltoso, o per la prima volta si va a autocertificarsi, un po’ come si fa nel vino e nei prodotti alimentari. Una specie di DOGC che certifica quel prodotto. Chiaramente questa cosa non può partire da chi produce, ma da chi vende, perché sono i brand che devono potersi vantare di esporre una etichetta Made in Italy. Sicuramente aiuterebbe a giustificare le famose 600 euro che dicevo prima a titolo esemplificativo.

 

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