Sindacati d’accordo per fine del lockdown. Confindustria Moda ha siglato con Femca-Cisl, Filctem-Cgil e Uiltec-Uil il protocollo perché le aziende della moda possano riaprire. In sicurezza, certo, perché la “sicurezza è fondamentale – commenta Claudio Marenzi, presidente dell’associazione datoriale e patron del brand Herno, con corriere.it –. Abbiamo condiviso con chi difende gli interessi dei lavoratori un protocollo da presentare al MISE e al comitato scientifico. Con le parti sociali ci siamo resi conto di quanto sia importante la riapertura”. Il lockdown imposto dalla pandemia di Coronavirus, insomma, deve terminare il prima possibile. Il rischio è vedere la catena del valore dell’alta moda volare verso altri Paesi.
Sindacati d’accordo
Se le imprese della moda dovessero rimanere chiuse oltre il 20 aprile, spiega Marenzi, le filiere rischierebbero il tracollo. “Siamo gli unici al mondo ad avere in casa l’intera filiera tessile-abbigliamento-accessori, nonché di altissima qualità – racconta –. Mentre in Italia siamo fermi, in altri Paesi europei, più o meno nelle stesse condizioni, lavorano. Parliamo di Francia, Spagna, Portogallo, anche Turchia”. La domanda sottintesa è: mentre le scadenze incombono, i brand internazionali quanto possono aspettare le risoluzioni del governo italiano, prima di prendere decisioni definitive? “Qualche marchio potrebbe decidere di spostarsi dalla nostra filiera a un’altra – è lo scenario che tratteggia il presidente di Confindustria Moda –. Sarebbe drammatico, soprattutto per le piccole aziende. I brand si riprenderanno da questa crisi. Ma se non facciamo ripartire le nostre aziende ora, il rischio è che la moda riparta senza la filiera italiana”.
La fatidica data del 20 aprile
“La nostra è una filiera stagionale: abbiamo date importanti, non eludibili”. Nello stesso panel di corriere.it è intervenuto anche Carlo Capasa. È il presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana a illustrare l’urgenza del calendario: “Dobbiamo poter presentare le pre-collezioni a giugno, per venderle a gennaio, anche via web. Dobbiamo, inoltre, consegnare gli assortimenti alle boutique di tutto il mondo. In Cina Hermès ha riaperto con successo. Non riaprire significa sacrificare un anno intero”. Il problema, riconosce Capasa, è che ad aver bisogno di spiegazioni del genere non è solo il pubblico di un quotidiano generalista, composto quindi da non addetti ai lavori. Anche nei Palazzi romani bisogna spiegare tutto e per bene: “Sento parlare di moltissimi tavoli e di moltissimi tecnici coinvolti dal Governo – continua Capasa –. Ma non ci sono esperti di moda. Mandiamo i documenti e siamo costretti a fare interviste per spiegare come funziona il settore”.
Oltre la riapertura
Occorre avviare la riapertura, dunque, e mettere in sicurezza la filiera. “Fino a qualche mese fa si parlava di reshoring – riprende Marenzi –, dell’opportunità di riportare in Italia commesse di nuovi segmenti, perché l’alta qualità già è nostra. Tra qualche mese il discorso potrebbe essere diverso”. Non basta terminare presto il lockdown: per attrarre lavoro “bisogna intervenire sul cuneo fiscale e sui costi dell’energia, mediamente del 30% maggiore di altri Paesi: altrimenti è impossibile – continua il presidente di Confindustria Moda –. Non siamo in competizione con Bangladesh e Cina, ma con Portogallo, Germania, Romania, cioè con Paesi europei. Gabbie salariali? A qualcuno farebbero drizzare i capelli in testa, non saranno il massimo, ma riporterebbero molto lavoro, soprattutto al sud”. Per non dimenticare la questione del credito: “Per le piccole e piccolissime imprese servono prestiti a fondo perduto – chiosa Capasa –. Alle aziende familiari, per le quali il margine è lo stipendio, il prestito non basta”.
Riapertura: in sicurezza si può
“Ho 30 persone che cuciono pro bono camici e mascherine da quattro settimane – conclude Marenzi –. Siamo aperti al 50% e con le dovute accortezze. Vuol dire che si può fare. Se dobbiamo convivere con questo virus per molto tempo, allora dobbiamo trovare il modo per riaprire, altrimenti alla pandemia sanitaria seguirà quella economica”. “Bisogna difendere le filiere del made in Italy – tira le somme Matteo Lunelli (fondazione Altagamma) –. Le nostre aziende si basano su un ecosistema fatto di piccole e piccolissime imprese: sono queste le più deboli. Se non rimettiamo in moto la macchina del made in Italy rischiamo di uccidere le filiere. Aziende che sono state aperte per produrre mascherine e camici hanno dimostrato di saper gestire la situazione”.
Leggi anche: