La condanna alla violenza privata che i militanti no-fur hanno riservato a Marc Jacobs e al suo team è di circostanza. Anzi, è tattica: “Certe cose alienano la simpatia del pubblico e non sono utili a costruire ponti per il dialogo”. Ma per il resto lo spazio che un’esponente di Human Society si prende su BoF non è l’occasione per una seria (auto)critica della deriva violenta di un certo antagonismo animalista. Anzi. È l’occasione per rigirare la frittata. “Saremmo noi i bulli – è l’estrema sintesi –? Allora che dire di come ci tratta LVMH?”. Che fa bene, se ci è permesso sostituirci nella risposta ai diretti interessati.
L’antefatto (violento)
La premessa è in un post di Marc Jacobs, che su Instagram si è lamentato del “bullismo” sofferto a opera di un gruppo di animalisti no-fur (di cui omettiamo il nome per non offrire loro pubblicità). A causa della pelliccia usata in occasione della collaborazione Fendi, lo stilista statunitense e i suoi collaboratori si sono beccati, vi abbiamo raccontato, minacce e intimidazioni non solo sul luogo di lavoro, ma fino alle porte di casa. Definirlo bullismo è poco: per noi è violenza privata.
Il vittimismo
Quelli di Human Society (che non sono collegati alla sigla responsabile delle violenze contro Jacobs) riescono a ribaltare il piano di interpretazione dei fatti. Per far passare i no-fur dal ruolo dei carnefici a quello delle vittime. “Non è bullismo – chiedono – il modo in cui ci tratta LVMH?”. Il gruppo francese sarebbe colpevole di non offrire il giusto trampolino alle istanze no fur. Be’, per noi fa bene. LVMH lascia che le varie anime della propria galassia facciano le proprie scelte: inclusa quella di dialogare con le sigle animaliste. Il pluralismo, come hanno sempre detto dalle parti di Arnault, è il valore della holding. Ma proprio per questo LVMH non può lasciare a un solo designer (o, peggio, a minoranze esterne) la facoltà di dettare la linea o scegliere le priorità a nome di tutto il gruppo. Non è prevaricazione: è coerenza.
Foto d’archivio Shutterstock
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