Diciamoci la verità: per i marchi della moda e del retail è un attimo dirsi fur free o vegan. Lo slogan è facile e fa guadagnare titoli di giornale, consenso dei vip engagé, plauso del pubblico social. Ma le conseguenze sono tutt’altro che semplici da gestire. Dalla cronaca rimbalzano un paio di notizie che ne danno la misura. Prendiamo il caso di House of Fraser: il retailer in autunno si è trovato al centro di una saporita polemica. Perché? Pur avendo fatto voto di bando al pelo naturale, offre capi bordati in pelliccia. Gli animalisti non hanno apprezzato e hanno menato rissa già a novembre. Ora si apprende che PETA non si fida. Anzi, teme un silenzioso ritorno House of Fraser sui suoi passi. Per questo ha comprato una quota di azioni di Frasers Group e si prepara (come già fatto con altre griffe) a portare la sua vis polemica fin dentro l’assemblea dei soci.
Lo slogan è facile
Qualcosa del genere, ancora nel Regno Unito, è capitato a TK Maxx. L’insegna (che fa capo all’omonimo gruppo USA della distribuzione) è da lustri fur free. Peccato che i militanti di Evolve Activism abbiano trovato tra grucce e scaffali capi realizzati in pelliccia vera. Non è la prima volta che TK Maxx inciampa in un incidente simile: già nel 2018 BBC aveva scoperto tanto fur dove non avrebbe dovuto esserci. Parlando con Metro.uk, quelli di Evolve Activism ipotizzano che ci sia malizia: adombrano, cioè, il sospetto che TK Maxx, carpita la fiducia dei consumatori con i proclami veggie, propini loro pelliccia naturale confidando nella loro distrazione.
Non c’è due senza tre
Poiché non c’è due senza tre, la raccolta di inciampi fur free non termina qui. Capita anche che il portale di e-commerce Romwe abbia venduto capi etichettati come in “pelliccia sintetica” (sic!), ma confezionati in pelliccia naturale. Dopo la denuncia di Humane Society sono arrivate le multe dell’ASA, l’agenzia britannica per la regolamentazione della pubblicità. Non finisce qui: secondo Metro, Romwe potrebbe andare incontro anche ad altre sanzioni.
Bisogno d’ordine
Avrete notato che i casi di cronaca arrivano tutti dal Regno Unito. E, infatti, il British Retail Consortium ha pubblicato nuove linee guida per l’etichettatura “veg”. Non basta che non ci siano pelle e lana perché un prodotto sia venduto come vegano. I distributori, ammonisce BRC, devono verificare con i fornitori tutti i materiali impiegati, incluse colle e tinture. Bella fatica. BRC, per di più, invita i suoi alla prudenza semantica: ok che un capo è veg, ma questo non vuol dire che sia automaticamente sostenibile. “Vegan significa che non contiene materiali di origine animale – recitano le linee guida –. Sostenibile prende in considerazione altri parametri, come il consumo idrico e il carbon footprint”. Iniziare con lo slogan è facile. Tenere testa a tutto il resto è difficile.
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